Recensione: Seven
A distanza di nove anni da “Better Days Comin’” tornano i newyorkesi Winger, a suggellare con il nuovo album “Seven” i corrispondenti lustri di attività.
Il gruppo è campione di stabilità, non avendo mai mutato la formazione originale, composta dal fondatore Kip Winger, già bassista di Alice Cooper (“Constrictor” e “Raise Your Fist and Yell”), Reb Beach alla chitarra, Rod Morgenstein alla batteria e Paul Taylor alle tastiere, con l’unica eccezione dell’inclusione, a partire dal 1992, del chitarrista di John Roth, e l’affiatamento della band ha innegabilmente la sua portata.
Sin dagli esordi, con l’omonimo album “Winger” (1988), i nostri riescono a coniugare la raffinatezza della musica classica all’energia e alla potenza dell’hard rock, grande tecnica alla capacità di trascinare, creando inedite tonalità dalla tavolozza classica dei colori di quest’ultimo genere. Pregevoli e originali le trame musicali, rette sempre da una batteria ricercata, con riff serrati, chorus orecchiabili e inarrestabili assoli, essenziali tastiere a fare da discreto, ma imprenscidibile collante, e la bellissima voce di Kip Winger, capace di comunicare con grande spontaneità ed immutata intensità stati d’animo ed emozioni.
“Proud Desperado”, alla cui scrittura ha partecipato il grande Desmond Child apre con la giusta carica l’album regalandoci la prima chicca. Brano molto interessante, dal tono epico, con un testo toccante, che vede balenare nelle tenebre della disillusione, dalla sconfitta e dalla rabbia un piccolo raggio di speranza, caratterizzato da un prechorus dissonante che cede il passo a un chorus di grande intensità, entrambi di pronta assimilazione.
“Heaven’s Falling” è un pezzo appena meno cupo, ma altrettanto intenso, in cui la raffinatezza della band fa capolino con una grande interpretazione vocale che ricorda a tratti Chris Cornell.
Un intro che ha qualcosa di “Hells Bells” degli ACDC introduce “Tears Of Blood”, un altro brano di classe superiore caratterizzato da sonorità orientaleggianti (da sempre nelle corde di Kip) che presenta uno dei migliori assoli dell’album.
Vi sono tracce nella scaletta che risultano innegabilmente più ordinarie, nonostante la cura maniacale di arraggiamenti e cori ed una esecuzione che non lascia spazio a obiezioni (con la precisazione, che, quando si parla di ordinarietà nel caso dei Winger si è sempre ad un livello superiore alla media), come “Resurrect Me”, “Stick the Knife In and Twist”, “Time bomb”, o “Voodoo Fire”, quest’ultima con una certa influenza funky.
Altre gemme la band, tutt’altro che parca, si diverte a seminare lungo il percorso di “Seven”. È il caso di “Broken Glass”, che partendo da atmosfere ambient chillout, prima lenisce il dolore e lava le ferite con una leggera pioggia primaverile, e poi sfodera il carattere di una potente ballad dai fraseggi chitarristici malinconici, che getta sale sui tagli, il cui chorus si può dimenticare solo con una lobotomia.
Anche “It’s Okay”, decisamente ottantiana e “One Light To Burn”, sincopata e bluesy, non passano assolutamente inosservate. “Do Or Die” è un pezzo in cui dalla rilassatezza AOR si passa repentinamente alla rabbia del rock e ai virtuosismi del progressive.
Menzione speciale per il brano di chiusura “It All Comes Back Around”, ballad dal sapore new wave con un Kip al top e un assolo di chitarra in chiusura da urlo.
Ottima prova per i Winger che sfornano un album coerente, nei testi e nei contenuti musicali, e magistralmente impostato.
“Seven” è uno di quei lavori che si sottrae al consumo frettoloso e disattento che contraddistingue i nostri giorni, risultando destinato a divenire un classico e, in quanto tale, a rivalutare costantemente il proprio valore nel tempo.
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