Recensione: Seven Devils Moonshine
Prosegue il progetto dei Virgin Steele di ristampare la loro discografia.
Quest’anno è la volta di ‘Hymns to Victory’ e ‘The Book of Burning’, usciti rispettivamente nel 2001 e nel 2002. Il primo è una compilation di brani tratti dagli album usciti nel periodo che va da ‘Noble Savage’ (1985) a ‘The House of Atreus: act II’ (2000), per cui racchiude il momento storico più epico del combo. L’unica differenza tra la nuova edizione del 2018 e l’originale sta nell’esclusione di ‘Saturday Night’ e nell’inclusione, come bonus-track, di ‘Dust From the Burning’ e ‘Amaranth’, tratte dal Full-length originale ‘Invictus’ del 1998, ma incise in versione orchestrale.
Il secondo album unisce brani nuovi ad altri ri-registrati (come, ad esempio ‘Don’t Say Goodbye (Tonight)’, ‘Children of the Storm’ e ‘Guardians of the Flame’); è quindi anch’esso praticamente una raccolta, con l’aggiunta di ‘Queen of the Dead (Nordic Twilight Version)’, da ‘Nocturnes of Hellfire & Damnation’ del 2015, quale bonus track.
Trattandosi, dunque, di due raccolte questi album sono consigliabili a chi vuole addentrarsi nel mondo dell’Epic Metal, ma David DeFeis e soci quest’anno vogliono dare di più ed affiancano, alle due ore e mezza di musica, altre tre ore e tre quarti di canzoni, divise in tre CD, comprendenti brani nuovi, altri ri-arrangiati e cover di altri artisti che in qualche modo hanno influenzato la loro storia. Tutti registrati per l’occasione, non derivanti da nastri abbandonati in cantina o scartati nel corso di altre lavorazioni.
Un lavoro incredibile e non da tutti, che ha portato all’incisione di cinquantotto tracce, un totalone!!!
Parlandone in generale, l’opera è suonata magistralmente, con il leader David DeFeis, in piena forma, che passa da una tonalità all’altra con estrema disinvoltura, introducendo il canto con gli urletti ed i ‘look out’ che ormai lo distinguono e che fanno ipotizzare che, in tanti anni da musicista, non si sia mai accorto di indossare pantaloni troppo stretti quando si siede al pianoforte; tale strumento, al di là delle battute, può dirsi parte estensiva delle sue corde vocali, tanto luminosa è la magia che esce dai suoi tasti.
Inutile parlare delle qualità del chitarrista Edward Pursino, che affianca il capobranco fin dal 1985, del bassista Joshua Block, presente dal 2000 e del batterista Matt McKasty, ultimo assunto dal 2016. Tutti musicisti eccelsi.
Allora, cosa c’è che non va? Perché non mi sono ancora addentrato nella descrizione degli ultimi tre album? Perché per iniziare a scrivere ho dovuto, innanzitutto, chiudere la mia anima thrasher in un baule e lasciarlo in cantina, poi dimenticarmi degli Iron Maiden, dei Saxon e della NWOBHM, nonché di chi è venuto prima di loro: Judas Priest, Black Sabbath, Accept, Motorhead, AC/DC… ed, infine, togliermi dalla testa il lavoro degli stessi Virgin Steele, quello fatto dal 1985 al 2002, che li ha consacrati come ideatori, sviluppatori e portatori sani, insieme ai Manowar, dell’Epic Metal.
Si, perché, nella realtà, le parole Heavy e Metal non sono mai state così distanti tra loro come in questo caso; al massimo parliamo di un Hard Rock potente, ma sempre molto melodico, con i momenti epici che vengono a malapena fuori nei brani datati ed arrangiati nuovamente, tutti rigorosamente in chiave acustica o sinfonica.
Insomma, i Virgin Steele proseguono la strada intrapresa con i concerti acustici ed orchestrali di qualche anno fa e prendono le distanze dai toni epici e solenni che li distinguevano.
Analizziamo singolarmente i tre platter:
CD 1 “Ghost Harvest (The Spectral Vintage Sessions)” Vintage 1 – Black Wine For Mourning
Tra i tre è l’album dove la musica è un po’ più dura, sempre però compressa da una melodia di fondo che ne evita l’esplosione. I riferimenti all’Hard Rock anni ’70, che al principio ha molto influenzato i nostri, sono molteplici e, in alcuni casi, si ha l’impressione che vogliano gareggiare con i Led Zeppellin, oppure, al contrario, che vogliano rendergli omaggio.
Heavy o non Heavy ci sono brani di notevole importanza, come ‘Seven Dead Within’, che apre le danze: molto articolata ha un cantato duro accompagnato dalla melodia del pianoforte; l’assolo ha un andamento progressive ed a metà subentra l’orchestrazione che accompagna una narrazione che oscura il tutto.
La seguente ‘Green Dusk Blues’ è un misto di blues e prog, con un basso che coinvolge alla grande e quasi ipnotizza, poi il tutto si trasforma diventando una ballata che riprende allegra.
‘Bonedust‘, tratta dall’album ‘Vision of Eden‘ del 2006, è proposta in versione orchestrale, senza chitarra od altri strumenti elettrici.
‘Feral‘, dura oltra dieci minuti, è cangiante e luminosa, con un assolo lunghissimo ed articolato che la divide in due: la prima dura, la seconda melodica.
‘Justine‘ e ‘Princes Amy‘ sono due ballate romantiche ed emozionanti che non lasciano indifferenti, così come ‘Wicked Game’, composta originalmente da Chris Isaak per il suo album ‘Heart Shapped Woeld‘ del 1989, che ha un assolo da brivido, ma il pezzo forte è la cover di ‘Little Wings‘ di Jimi Hendrix (da ‘The Cry of Love‘ del 1971), suonata e cantata in modo stupendo, indimenticabile, che lascia letteralmente di sasso. E’ la prova che gli ‘Steeler‘ sono in grado di suonare ed interpretare qualsiasi cosa.
CD 2 “Ghost Harvest (The Spectral Vintage Sessions)” Vintage 2 – Red Wine For Warning
Nel secondo platter l’egocentrismo de David DeFeis comincia a venire fuori: sempre più numerosi sono i brani eseguiti solo da lui.
Si ascoltino, ad esempio, l’iniziale ‘The Evil in Her Eyes’, (da ‘Noble Savage’), ‘The Gods are Hungry Poem’ e ‘Profession of Violence’, in versione per solo piano e canto.
Alcuni brani sono introdotti e poi chiusi da brevi sezioni musicali, dando corpo a delle suite e tanti, appartenenti ad altri artisti, sono riprodotti seguendo melodie lente e sommesse. Sono così, ad esempio, ‘Feelin’ Alright’ dei Traffic, datata 1968, ‘Sister Moon’ di Sting del 1987 e ‘Summertime’ scritta dal maestro George Gershwin ed interpretata, tra i tanti, da Ella Fitzgerald.
Con pari andamento vengono condotte ‘Soul Kitchen’, ‘When the Music’s Over’ e ‘Crawling King Snake’, tutte dei Doors.
Gli altri musicisti appartenenti agli ‘Steeler’ diventano essenzialmente dei comprimari che spuntano qua e là, come ad esempio nella strumentale ‘The Poisoned Wound’ ed in ‘The Birth of Beauty’, dove Edward Pursino dice che c’è ancora e stà alla grande, od in ‘Nutshell’ dove fa capolino anche Matt McKasty con la sua batteria.
Nel disco c’è spazio, anche se poco, per un po’ di Rock energico con ‘Rip Off’, abbastanza elettrica, ‘Rock Steady’, cover dei Bad Company del 1974 e le frenetiche ‘Wake the Dead’ e ‘The Graveyard Dance’, quest’ultima di una manciata di secondi e non manca un brano blues tratto dal repertorio degli ZZ Top: ‘Jesus Just Left Chicago’ del 1973.
Preceduta da ‘After Dark’, cover dei Tito & Tarantula scritta nel 1997, è interessante ‘The Triple Goddes’, diversa dal resto del lavoro: una sinfonia cupa e profonda che poi prende luce e lascia respirare prima di ripiombare nell’oscurità.
Chiudono il secondo CD le versioni live ed acustiche di ‘Twilight of the Gods’ e ‘Transfiguration’, (le versioni originali sono contenute in ‘The Mariage of Heaven and Hell Part 2’ del 1995).
CD 3 “Gothic Voodoo Anthems”
Il terzo CD è diviso essenzialmente in due parti. La prima è composta dalla versione orchestrale di brani dei Virgin Steele tratti da ‘The Marriage of Heaven and Hell Part 1’ del 1995 (‘I Will Come For You’), ‘Nocturnes of hellfire & Damnation del 2015’ (‘Queen of the Dead’), ‘The Black Light Bacchanalia’ del 2010 (‘The Orpheus Taboo’, ‘The Black Light Bacchanalia’ e ‘By The Hammer Of Zeus (And The Wrecking Ball Of Thor)’ e ‘The House of Atreus: Act I’ del 1999 (‘Kingdom of The Fearless (The Destruction Of Troy)’).
Devo dire che, probabilmente a causa della lunghezza dei pezzi, la proposta orchestrale non riesce ad essere molto brillante ed è un po’ tediosa. Per apprezzarla bisogna essere, forse, più intenditori di musica sinfonica che non dei rockettari, che non bevono mentre guidano solo perché rischiano di rovesciare la loro birra.
Il resto del platter è composto da brani lenti e melodici, quasi tutti delle cover, come ‘The Enchanter’ di Robert Plant, ‘Bone China’ dei Mother Love, ‘No Quarter’ dei Led Zeppelin, ‘Chloe Dancer’ e ‘Gentle Groove’ dei Mother Love e ‘Death Letter Blues’ e ‘Spoonful’, rispettivamente di Eddie James ‘Son’ House e Howlin’ Wolf, due bluesman dei primi anni ’60.
Con questi due pezzi si chiude l’enorme lavoro che compone il cofanetto ‘Seven Devils Moonshine’, ultima fatica, almeno per ora, dei Virgin Steele.
Riepilogando: tra i cinque CD, le ristampe di ‘Hymns To Victory’ e ‘The Book Of Burning’ riassumono quello che sono stati i Virgin Steele dagli esordi fino ad oggi. Come già detto, trattandosi di due raccolte, sono adatti a chi vuol conoscere questo grande gruppo storico che ha scritto tra le più belle pagine della storia del Metal.
Il materiale inedito dimostra che il gruppo è in grado di suonare qualsiasi cosa, senza limiti, uscendo prepotentemente dagli schemi dell’Heavy Metal ed anche dalle tonalità epiche delle quali sono maestri. Peccato che ore e ore di lentezza, alla fine, a parere del sottoscritto, annoino, per quanto si possa essere dei metallari dalla mentalità aperta e pronti ad ascoltare di tutto.
Rimane, infine, l’ostica domanda: è questo il nuovo corso dei Virgin Steele, oppure si stanno preparando a qualche epica sorpresa che male non farebbe? Staremo a vedere, per ora il giudizio è sufficiente, ma ben lontano da quelli espressi per i lavori passati.