Recensione: Seven Songs Of The Seven Sins

Di Francesco Sgrò - 19 Maggio 2013 - 0:01
Seven Songs Of The Seven Sins
Band: Trinakrius
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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75

“Seven Songs Of The Seven Sins“, questo il titolo scelto dagli italiani Trinakrius per la terza fatica in studio.
Com’è facile intuire dalla premessa, il nuovo album del quintetto palermitano si snoda nel corso di sette brani, ognuno dei quali è focalizzato su uno dei sette peccati capitali.
Con una formazione comprendente musicisti di elevata caratura e buona esperienza, il gruppo realizza un lavoro solido ed interessante che trae la propria linfa vitale dai preziosi insegnamenti impartiti da mostri sacri come Candlemass, Black Sabbath e (in parte) addirittura Megadeth .
A dir poco notevole è di conseguenza il risultato finale dell’opera che si adagia su toni oscuri e minacciosi, in cui il Doom, il Power ed il Metal classico si mescolano con successo, rendendo il lavoro molto dinamico.

Il primo peccato sviscerato dal combo tricolore è la superbia, rappresentata dall’ottima opener “Pride  (I Am The One)”, che dopo pochi istanti dedicati ad un preludio narrato, esplode in una colata di rovente Heavy Metal classico, nel quale risulta fondamentale il lavoro chitarristico volto a creare un muro sorretto da una sezione ritmica precisa e affilata.
Con la seguente “Sloth (Shelve And Delay)“, l’opera si tinge di pesanti atmosfere Doom che sembrano rievocare lo spirito dei primissimi Candlemass, per un brano che sembra provenire proprio da “Epicus Doomicus Metallicus“ del 1986: a dominare il pezzo sono ancora i massicci riff  chitarristici, cui si aggiunge un perfetto e suggestivo operato tastieristico.
La feroce “Envy (Malicious Desires)“, riporta il gruppo su sonorità più classiche grazie ad un brano dalla velocità sostenuta, in cui si distinguono positivamente le ottime melodie vocali interpretate da Fabio Sparacello (noto soprattutto per il lavoro svolto con i connazionali Crimson Wind, in cui milita anche il batterista Claudio Florio).
Un alone di oscura angoscia cala nuovamente sulla massiccia “Gluttony (Anorexia)“, in cui stavolta emerge l’anima dei primi Black Sabbath.

Ogni barlume di speranza viene soffocato dalla disperazione che alberga nelle profondità di un lavoro che con la lunga e sostenuta “Lust ( Sex Humanity)“, si arricchisce di un altro momento di assoluto valore che ha la sua forza in un Refrain melodico e diretto.
Le fasi finali del disco sono affidate alla violentissima “Greed (All Mine)“, che per certi versi può ricordare vagamente il sound dei Megadeth del periodo “Rust In Peace“ ed alla decadente “Ira (L’oscura Ascesa)“, interpretata completamente in lingua madre a rappresentare, probabilmente, il momento meno convincente di un disco che trova la propria conclusione nella cover della storica “Die For My Sins“, firmata dai Sanctuary.

Un album più che soddisfacente insomma, seppur di difficile reperibilità e caratterizzato da qualche leggera ombra di fondo.

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