Recensione: Seven Years Later
Arcigni, quadrati, sulfurei e con un buon istinto melodico: sono una bella scoperta questi The Brain Washing Machine.
Inseribile in modo tutto sommato coerente per quanto riduttivo, nel filone stoner rock, il quartetto padovano attivo dal 2006, dimostra di possedere in buone quantità tutte le caratteristiche necessarie nel soddisfare le esigenze degli ascoltatori proprio di quel genere, polveroso, scavato e dannatamente “american style”, tanto affine alle immagini desertiche di piste brunite dal sole e pietraie incandescenti.
Senza però, perdere in scioltezza ed abbandonare un taglio amichevole per l’orecchio. Uscendo cioè, dal cliché lisergico del trip sonoro ipnotizzante, per preferire una “forma canzone” concreta che lasci spazio ad armonie e ritornelli di stampo preferibilmente hard rock-blues.
Chitarre ribassate e suoni potenti, come ovvio. Ma anche ritmiche lanciate e buon dinamismo che permetta ai brani di non incepparsi in lunghe tirate monocordi, offrendo piuttosto un approccio corposo di stampo “groove” che media proprio il buon hard rock statunitense con la fisicità di certo metalcore melodico, ben riconoscibile negli accordi solidi e rimbalzanti proiettati dalla sei corde del chitarrista Riccardo Morandin.
Certo, Padova e provincia sono ambientazioni piuttosto atipiche per un suono tanto connotato geograficamente. È tuttavia alquanto significativo sottolineare ancora una volta come, nella terra dello stivale, siano ormai molti i proseliti del rock “delle pietre”, attitudine sempre più diffusa e supportata da un numero crescente di giovani band interessate a svilupparne i caratteri.
I The Brain Washing Machine risultano senza alcun dubbio credibili esponenti del settore, realizzando con “Seven Years Later” (un titolo indicativo: il debut album “sette anni dopo” – probabilmente – dalla data di fondazione), un esordio discografico compatto e massiccio, ben calibrato tra la potenza di suoni stordenti e la risoluta velocità di brani diretti e dotati di qualche interessante armonia.
Non s’intravedono naturalmente le stimmate degli innovatori o di chi ha in animo creazioni particolari. Si riconoscono tuttavia tutte le peculiarità di una band in possesso di una buona vena creativa e di parecchie frecce al proprio arco utili nell’allestire un gruppo di canzoni essenzialmente piacevoli, suonate con convinzione e ben prodotte.
Non c’è da sbagliare: “Sparks”, “Same Old Man”, “Dance”, “Angry Boy” sono tracce che mescolando l’intramontabile doppietta Sabbath / Kyuss (come dire, “le pietre angolari” del genere) con Monster Magnet, Black Label Society e Soundgarden, costruiscono un muro di suono che colpisce duro e riesce a rivelarsi mai banale, ottenendo un risultato non proprio scontato: divertire.
Voce ruvida seppure mai sgraziata, chitarre rotonde, sezione ritmica di cemento ed atmosfere – ora plumbee ed opprimenti, ora più aperte e martellanti – si immergono in una miscela che nell’accogliere inflessioni rock, blues, stoner, groove, core, grunge e crossover, manda a referto un disco decisamente riuscito ed appetibilissimo per le orecchie dei seguaci di toni moderni ed americaneggianti, a cavallo tra insolazioni da Death Valley e sgommate di Harley Davidson.
Una band con parecchi attributi insomma, padrona di un sound contemporaneo ed assoluta protagonista di un debutto di ottimo livello e qualità.
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