Recensione: Seventheaven
Stanno finendo gli anni ottanta per lasciare il passo ai novanta, da molti considerati la tomba dell’ hard rock e del metal nel senso classico del termine. Numerose sono le band finite sotto la morsa dei nuovi fenomeni (nel senso di eventi) musicali. Eppure questa evoluzione sembra essere presa di vista solamente dalle folle e dai mass media, non dalle band che continuano imperterrite sulle loro vie, qualcuna si adegua e qualcun altra no. Anche nell’Italia dell’Hard and Heavy si muove qualcosa. I Vanadium, capostipiti del movimento nazionale hard’n’heavy, sono infatti all’ultimo disco della loro carriera (prima della reunion), disco ricco di luci ma anche di qualche ombra. Settimo cielo nasce infatti in circostanze particolari. Primo album sotto la Green Line, nuova casa discografica dei milanesi, che dovettero cambiare a a causa del fallimento della storica (per loro) Durium Records, Seventh Heaven viene prodotto da Guy Bidmead, già produttore di Motorhead e Tina Turner, e segna la definitiva evoluzione della band da hard and heavy a tipico esempio di pomp rock. Se infatti questa evoluzione strumentale si poteva sentire abbastanza chiaramente già sul precedente “Corruption of Innocence”, che a posteriori si può vedere come la prova generale di questo album, qui lo stile del rock americano imperversa in tutto e per tutto, tra l’altro con risultati eccellenti, visto che si tratta per molti del miglior album che la band abbia mai composto (e uno dei pochissimi che si può trovare anche in Cd). A conferma di quanto dico vi sono i numerosi “after” all’album, tra cui concerti anche importanti vissuti da prim’attori eccetera, after che però, per assurdo contrappasso, si riveleranno fatali in quanto la Green Line non riuscirà a gestire ed organizzare bene le cose, fallendo e lasciando, definitivamente, la band a piedi (dopo questo secondo fallimento i Vanadium decideranno di dedicarsi per un po’ ai loro progetti personali). Apriamo la custodia (davvero ben fatto l’artwork) e fin dalla splendida opener “Italian Girl” capiamo che siamo per davvero in un’altra era. Il sound, complice anche la miglior produzione mai avutasi su un disco dei meneghini, è senza interferenze ed estremamente “arrotondato”, la melodia, soprattutto quella della chitarra, è speciale e molto più accentuata che in passato, pur non perdendo dinamismo (si ha, di contro, un netto calo della cattiveria, ma era prevedibile) e le voci di fondo hanno un ruolo fondamentale. Scotto si mostra in forma smagliante e non sbaglia nulla o quasi, ma gli altri non sono da meno creando un team come sempre vincente. Tornando all’opener, questa è probabilmente una delle migliori song del disco, dedicata ovviamente alle nostrane bellezze. Tutta la traccia è su altissimo livello, ma ci tengo a sottolineare la bella lirica, un eccellente refrain e un assolo che rimarca ancora una volta la confidenza di Tessarin con la sua 6 corde. Non siamo certo a livelli più scadenti con la successiva “Natural Born Lover”, mid tempo dove l’elettronica la fa da padrona, ma con una classe che pochi hanno dimostrato (nel mix fra elettronica e strumenti classici). Ancora bellissimi il bridge e il ritornello, da cantare in coro. Un grande arpeggio ci porta nel cuore della commovente “Take my Blues Away”, magistrale lento dove si vede la faccia più romantica dei Vanadium. L’assieme è fatto con una precisione e una dolcezza spaventosa, e lo stesso Scotto, dalla voce così particolare, sembra trovarsi abbastanza a suo agio nei panni del cantante di ballad. Arriva, come per ogni disco che si rispetti, il momento della titletrack, “Seventheaven”. Sicuramente siamo di fronte a un brano particolare, in quanto trattasi di un raffinato lavoro tastieristico che funge da introduzione a quella che probabilmente la traccia più sfrontata e dal sapore antico del lotto, la velocissima “Bad Attitude”. Qui, con le dovute proporzioni stilistiche, sembra proprio di risentire i Vanadium dei primi anni ottanta. Tessarin, seppur con minore sonorità, ci regala un riff atomico, forse il migliore degli ultimi anni, accompagnato da uno scatenato Mimmo Prantera. Bello il ritornello e pirotecnico l’assolo, che ci regalano un ulteriore salto nel passato, che sembra voler restare in nostra compagnia anche con la succesiva “One Way Ride”, che mi ricorda molto dischi come “Born to Fight”. Il riff è molto molto ottantiano e le tastiere sullo sfondo danno un vero tocco di magia a questo mid tempo che, se non fosse per il ritornello molto made in USA (come tutti gli altri del resto, cantati in coro e orecchiabilissimi), sarebbe potuto starci alla grande nel già citato “Born to Fight” o anche, sforzandoci con la fantasia, in “Game Over”. Sembra che la seconda parte del platter sia nettamente più massiccia della prima, pur mantenendosi sempre sui binari del nuovo sitle, perché lo stesso discorso (tastiera a parte) che ho appena fatto a “One Way Ride” lo potrei fare pure a “Kill the Killer”. Ovvero gran riff, gran cantato, musica bella e aperta, ritornello meraviglioso ma questa volta niente Game Over, davvero troppo diverso. Comunque il disco sta diventando più bello e completo ad ogni canzone che passa e questa mia sensazione viene confermata ancora una volta con “Step Ahead of Time”, aperta da uno splendido motivo di tastiera, appoggiata ben presto da un roccioso ma allegro giro di 6 corde. Questo mid tempo (un’altro) è contraddistinto da numerosi assoli, praticamente uno prima ogni strofa più quello centrale. Sebbene questo pezzo possa risultare un po’ meno di impatto degli altri a un primo ascolto, sono certo che a più riprese riesce a prendere ne più ne meno dei suoi predecessori (così almeno è successo a me). Sono stanco di dare aggettivi positivi ad ogni canzone, ma proseguo, trovandomi davanti alla penultima “To be a number one”. Pezzo dinamicissimo e scanzonato, lo reputo una delle peggiori (sebbene sia su più che discreti livelli) composizioni dell’album, forse perché in alcune parti la voce non mi risulta perfettamente melodica negli arrangiamenti (a dire il vero nemmeno le backing vocals femminili mi ispirano tanto, ma sono una trovata quantomeno originale). Ad innalzare queste deficenze ci pensano però l’ennesimo bel riff e due assoli favolosi, tra l’altro consecutivi. Soprattutto quello di tastiera è da ricordare, in quanto conferisce magia e maggiore aura a quello prettamente pirotecnico di Tessarin. Il compito di chiudere la prima vita dei Vanadium è affidato a “Warriors”, un ideale mix tra il vecchio e il nuovo corso. Sembra praticamente una traccia del passato con dietro le tastiere all’americana, il tutto mescolato perfettamente. A dire il vero in alcuni casi si ha una certa ripetitività, però nel complesso la carica sprigionata non ha tantissimi eguali. Che dire (oh ormai ad ogni fine rece dico “che dire”, sto diventando noioso…), se questo non è un disco senza punti deboli poco ci manca. Io non lo reputo il migliore dei Vanadium solo perché esiste un certo “A race with the Devil”, certo è, che tra i dischi in studio di Scotto e compagni, questo magistrale lavoro se la gioca, nella mia graduatoria, per un comodo secondo posto (con Game Over), ed è forse più rappresentativo dello stesso disco del 1984 in quanto dimostra la grande polivalenza musicale di una band straordinaria (infatti rispetto chi dice che questo è il miglior disco della band). Sentitelo e poi se avete qualcosa da dire su chi fossero i portabandiera della scena Hard’n’Heavy italiana tornate qui che ne riparliamo.
Riccardo “Abbadon” Mezzera
Tracklist :
1) Italian Girl
2) Natural Born Loner
3) Take my blues Away
4) Seventh Heaven (Ruggero’s Theme) + Bad Attitude
5) One Way Ride
6) Kill the Killer
7) Step Ahead of Time
8) To be a number one
9) Warriors