Recensione: Sgúrr
In principio erano gli Unni, vennero poi gli Avari ed infine gli Ungari. Ci hanno dato il gulash e le csárdás. Ci hanno fatto sognare con Bártok Béla e ubriacato con il loro vino. ci hanno emozionato con le poesie di Petőfi Sándor, i romanzi di Molnár Ferenc e quelli di Marái Sándor. Hanno inventato il federalismo imperiale nell’era di Metternich, senza sprecar tempo a perdere guerre d’indipendenza, hanno insegnato il calcio, inventato il trequartista (nella persona di Hidegkuti Nándor) e messo in campo Puskás Ferenc (tra i tanti). Báthory Erszébeth era magiara, e senza di lei ci saremmo persi il viking metal, un pezzo dei Venom e un discreto concept dei Cradle of Filth. Proprio loro furono i primi a fregiarsi di un gruppo prog psychedelico sotto il Patto di Varsavia, quando nel 1970 furono fondati gli Oméga, il cui disco Csillágok Utján (viaggiatori delle stelle) ha ben donde di essere considerato un piccolo classico del psycho-prog d’oltrecortina (e non). Ed al tramonto degli anni novanta un’altra band di quelle piane è assurta a discreta notorietà nella microgalassia del metal estremo e bislacco – quei Thy Catafalque che oggi, grazie alla loro sesta fatica Sgúrr, sbarcano finalmente quanto meritatamente su Truemetal.
Parlandone per la prima volta, sarà bene prenderla larga. Il catafalco infatti si mette in moto alla fine degli anni ’90. Che ci sia di mezzo un verso dei già citati Cradle of Filth (*) in quel nome? Non lo sapremo mai. Fatto sta che mettono alle stampe un album in inglese in cui dimostrano di saper veloce e di vedere lontano. Ci sono infatti notevoli innesti di tastiere, innesti che potete sentire lì ed in pochi altri dischi. Ma quello che succede nei due album successivi, Microcosmos e Tunő Idő Tárlat, va sentito e basta. Il black rimane, ma tra riff di chitarra rusticamente old school, compare di tutto. Musica classica, csárdás, break, di svariati minuti, di elettronica minimale. È un po’ come se gli Ulver invece di fare Nattens Madrigal e Perdition City, li avessero mischiati in un’opera unica. Da lì in poi succede l’inverosimile. Róka Hasa Rádió consolida il tutto, Rengeteg lo rende quasi pop, con due canzoni, Kel Keleti Szel e Trilobita, che sono autentiche hit, solo che nessuno le fila perché cantate in ungherese.
Rengeteg, uscito quattro anni fa, è probabilmente (almeno secondo chi scrive), la miglior prova dei magiari, o meglio, del magiaro, visto che proprio Rengeteg vede Tamás Kátay assurgere come definitivo ed unico titolare del progetto. Rengeteg è una prova forse un po’ frammentaria ma maledettamente matura e decisamente accessibile a dispetto di un primo impatto che può lasciar disorientati. Può dunque il nuovo Sgúrr ambire a bissarne o addirittura superarne la qualità?
Bisogna dire che la traccia promo, ed effettivamente anche prima traccia del disco, lasciava ottime sensazioni. Intitolata Alföldi Kozmosz, strumentale, decisamente non aveva molto di metal. Piuttosto quel violino csárdásiano con una marcata base elettronica a far da contorno, al di là di conquistare al primo ascolto, lasciava in bocca certo Battiato (Lode all’inviolato). Il resto del disco ad ogni modo conferma il classico sound e la classica struttura che contraddistinguono gli album del catafalco, con due cavalcate da quarto d’ora e la concreta commistione di black ed elettronica. Va detto che il sound di Sgúrr sembra decisamente più limato, si perde la frammentarietà dei dischi precedenti, probabilmente grazie ad un netto predomino dell’elettronica e alla quasi totale eliminazione delle liriche. Non c’è una Kel Keleti Szel o un Trilobita che insaporiscano, vale a dire alleggeriscano la minestra, al contrario però tutto il disco si presenta compatto e retto da linee melodiche non scontate ma comunque molto salde.
La già citata Alföldi Kozmosz, assieme alla più burrascosa Élo Lény sono propriamente le più accessibili composizioni del lotto. Vale a dire che Sgürr necessita di ripetuti ascolti, magari non super concentrati, va detto, per farsi conoscere e per condurre l’ascoltatore oltre il muro costituito da una proposta musicale atipica ed unica nel suo genere. Emergono subito le furibonde, “classicamente” black Jura e Keringo. Più tempo richiede invece la metabolizzazione dell’autentico capolavoro di quest’album, vale a dire la quartodoriale, mastodontica ed estenuante Oldódó formák a halál titokzatos birodalmáb – e se già il titolo fa paura figuratevi la traccia in sé.
L’aranycsapat del metal confeziona ancora una volta un disco relativamente difficile, ma magnificamente costruito e, ça va sans dire, privo di punti deboli. Il Catafalco lo ribadisce, degli ungheresi si scrive poco e male, bollarli come persone con una malsana infatuazione per recinti e staccionate è piuttosto riduttivo. Sgúrr è l’ennesima prova impeccabile di un gruppo, purtroppo di nicchia, che meriterebbe maggior attenzione. Con una miriade di gruppuscoli che spacciano per avangarde un black metal con montata sopra una pianola Bontempi viene solo da dire che QUESTO È AVANTGARDE! di quello che non ha paura di osare e sfondare barriere tra generi, non solo metal.
Éljen!
(*) Da Funeral in Carpathia, Dusk & Her Embrace, 1996
This catafalque night when awed stars report
Their absence from the heavenly brow