Recensione: Shadow Of The Moon

Di Robym - 29 Giugno 2001 - 0:00
Shadow Of The Moon
Etichetta:
Genere:
Anno: 1997
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
85

“In the shadows of the moon, she danced in the starlight, whispering a haunting tune, to the night…” Con queste parole inizia “Shadow Of The Moon”, il primo album dopo la svolta stilistica dell’immenso (per usare un eufemismo) Ritchie Blackmore: the Man in Black, dopo aver solcato i palchi di mezzo mondo distribuendo sciabolate di puro hard rock e heavy metal, eccolo giungere ad una nuova “maturità” musicale che lo vede appendere il chiodo al… chiodo (!!) per vestire i panni di menestrello medievale, accompagnato nell’ardua impresa dalla sua dolcissima bionda consorte Candice Night (il lupo perde il pelo ma non il vizio) e dall’altrettanto mielosa (in senso positivo) chitarra che sembra quasi essere accarezzata, come si farebbe col viso di una fanciulla e non violentata, come ai tempi dei Purple o dei Rainbow. In verità questo “SOTM” sarebbe il secondo album se si conta anche il semi-sconosciuto “Blackmore’s Kingdom”. Comunque ufficialmente i Blackmore’s Night iniziano qui, all’ombra della luna: prima di addentrarvi in quest’album, dimenticatevi il passato di Blackmore. La musica proposta è un mix di atmosfere medievali e folk, si ha la sensazione di tornare indietro nel tempo, di trovarsi magari in un castello, e di ascoltare una rappresentazione alla corte di qualche reale. Una volta indossata la calzamaglia, immergiamoci nell’acustica di questo album. Si parte con la titletrack “Shadow Of The Moon” e siamo subito di fronte ad un capolavoro: a mio giudizio questa canzone è la più bella in assoluto di tutta la discografia del gruppo, sia la melodia che il testo si riferiscono alla cultura gitana orientale e alle leggende legate all’infinità dell’universo che solo all’ombra della luna si può scorgere; una volta tuffati nella canzone si prova una sensazione straordinaria, una sorta di estasi… inoltre lo stridio delle unghie che pizzicano le 12 corde dell’acustica, contribuisce al pathos della song, veramente notevole; tecnica impeccabile come anche la prestazione della vocalist Candice Night (eccellente su tutto l’album). La seconda traccia, “The Clock Ticks On” (che prende spunto da una composizione di Tielman Susato), è una deliziosa song, che parla dell’inesorabile corsa del tempo e della vita e come questi, scorre via addolcendo l’animo dell’ascoltatore. Giungiamo a “Be Mine Tonight”, love song abbastanza veloce, con un intro splendido, che si evolve sino al bellissimo ritornello. La quarta canzone è un altro capolavoro: si tratta di “Play Minstrell Play” (anche questa influenzata da una composizione di tale Attaignant) pura espressione della musicalità cupa medievale, arricchita dai virtuosismi al flauto di Ian Anderson e dalle rapide evoluzioni chitarristiche di Blackmore. Prendiamo il fiato con la cover “Ocean Gipsy” (di Dunford e Thatcher) malinconica e triste quanto una gothic song. Eccoci di fronte ad un altro pezzo magistrale: si tratta dello strumentale “Minstrell Hall”… non esistono parole per descrivere questo pezzo in cui si raggiunge il picco di evocazione medievale; non mi stancherò mai di sentirla e di suonarla… da ascoltare assolutemente, col cuore e con l’anima. Arriviamo alla romantica “Magical World” che parla delle vicende di Romeo & Giulietta… l’album sin qui è un vero capolavoro. Sin qui appunto. La traccia successiva infatti, è quella che, a mio giudizio, rovina l’intero lavoro: si tratta di “Writing On The Wall”… questa “cosa” inizia con un famoso pezzo di Tchaikovsky (e fin qui tutto ok) e poi si evolve (anzi si involve) in una orrenda canzone pseudo dance. Posso darvi un consiglio: quando ascoltate questo cd, saltate la traccia numero 8. Ritorniamo, per fortuna, alla normalità con “Renaissence Faire” puro inno alla gaiezza medievale. Proseguiamo con la strumentale “Memmingen”, ispirata da festeggiamenti notturni all’ombra della luna e “No Second Chance” meravigliosa quanto drammatica, che nelle sue note ci descrive come il fato possa a volte essere malvagio e possa scaraventare la nostra vita dal baratro più profondo: questa è una delle poche canzoni in cui Blackmore usa anche la chitarra elettrica. Gli ultimi pezzi sono “Mond Tanz” che sarebbe una sorta di versione strumentale di “Shadow Of The Moon”; “Spirit Of The Sea”, accompagnata da un sottofondo di onde che si stagliano su una scogliera, dove malinconia e sentimenti si mescolano alla leggenda di uno spirito che solca i mari, molto toccante; “Greensleeves” (a cui avevano già dedicato qualcosa ai tempi dei Rainbow) veloce quanto triste canzone di amori non corrisposti (si pensa che sia stata scritta da Enrico VIII) e l’ultima “Wish You Were Here” (ma quante canzoni ci sono con questo titolo?) una cover scritta da un certo Teijo. L’album si conclude così, lasciando nell’animo dell’ascoltatore delle particolari sensazioni che difficilmente un disco metal potrebbe dare. In definitiva, questo disco è veramente bello e sarebbe un capolavoro, se non fosse per quella nota stonata rappresentata dall’ottava canzone. Per chi ama spaccarsi è meglio tenersi alla lontana dai lavori dei Blackmore’s Night. Chi invece ama divagare con la mente e con le emozioni, questo è l’album perfetto per tale attività, il migliore, in attesa dell’ultimo disco appena pubblicato, della discografia dei Blackmore’s Night.
“Alas my love, ye do me wrong to cast me out discourteously, And I have loved you for so long delighting in your company… Greensleeves was all my joy, Greensleeves was my delight, Greensleeves was my heart of gold And who but Lady Greensleeves…”

Ultimi album di Blackmore’s Night