Recensione: Shadow zone

Di Beppe Diana - 30 Aprile 2002 - 0:00
Shadow zone
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Anno: 2002
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80

Voglio iniziare questa recensione mettendo le mani avanti ribadendo ancora una volta la mia ammirazione nei confronti di mr. Axel Rudi Pell, un artista che è l’esempio vivente dell’integralità compositiva, uno di quei pochi musicisti che non si sono mai venduti alle leggi imperanti attorno al fantomatico mondo del music biz, accontentandosi magari di vendere qualche copia in meno, ma sicuro di non tradire mai la fiducia dei suoi molteplici die-hard fans, ovvero di chi ha sempre creduto nelle sue qualità artistico/espressive sia a livello concettuale che musicale,ai quali il platinato chitarrista teutonico ha offerto sempre e comunque il meglio di se stesso. Un musicista dotato di una prolificità che, almeno in campo classic metal, credo non abbia eguali, pensate che se si eccettuano i due anni intercorsi fra il debutto “Wild obsession” e il secondo “Nasty reputation, , non è passato un anno senza che A.R. Pell non abbia pubblicato un album, considerando naturalmente live e raccolte varie. Un bel record non c’è che dire, magari la prolificità non è sempre stata compensata dalla qualità dei prodotti,ma nonostante tutto il nostro amico è ancora in piedi a ribadire che la costanza e la tenacia molte volte premiano. Sicuramente meno funambolico del dio chitarrista svedese, al secolo sua maestà Malmsteen, dal quale si differenzia soprattutto nella predilezione per i giri armonici, nonché nella sagacia volontà di voler deporre la propria ascia al servizio della band e delle composizioni soprattutto, cercando di non strafare e di non lasciarsi mai prendere la mano. Forse più istintivo e sanguigno naturalmente, dotato di un gusto melodico sopraffine con il quale cerca di colpire l’ascoltatore sprigionando un suono caldo ed avvolgente, qualità che senza dubbio ammaliano. Tutto questo è Axel Rudi Pell, e chi lo conosce lo sa bene, e naturalmente sa cosa aspettarsi da un suo album, ovvero una cascata di note metalliche che si incastonano su di un pentagramma cromato fra iniezioni di hard rock seventies style, anche su “Shadow zone” il suo guitar work risente molto palesemente dell’ammirazione verso l’idolo adolescenziale Ritchie Blackmore, e partiture legate ad un certo melodic power metal naturalmente d’estrazione teutonica. Dieci brani lunghi ed elaborati, che permettono al chitarrista di fare sfoggio di un’ottima tecnica esecutiva e di un song writing oramai rodato e maturo,e se si aggiunge l’ottima prova di una band all’altezza delle aspettative che ha nell’ex Hardline Jhonny Gioielli la sua punta di diamante, beh il gioco è fatto.  Qualcuno dice che il buon Axel è come gli AC/DC o come i Mothored che suonano la stessa canzone da anni, forse è vero, ma è anche vero che nessuno ha mai detto che per piacere si deve essere per forza degli innovatori, o sbaglio? Dunque se volete ascoltare una manciata di brani che vi faranno muovere il vostro flaccido culo rintrinzito da ore ed ore spese in ufficio e che vi saprà regalare un’ora di completo e sano sballo sonoro, “Shadow zone” fa per voi, credetemi.

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