Recensione: Shaft Of Light
NWOBPAMR– the New Wave Of British Pomp And Melodic Rock: l’ennesimo acronimo?
Forse sì, ma più semplicemente una sigla coniata ad hoc dai giornalisti del tempo (primo fra tutti il celebre Malcom Dome) per identificare quei complessi che alla fine della nuova ondata, intorno alla metà degli anni ottanta, cercarono di rilanciare la scena britannica hard’n’heavy di matrice melodica, purtroppo con alterne fortune e scarsi risultati.
Gli Airrace rappresentano i capofila di questo movimento nonché forse i massimi interpreti. La storia ha inizio nei sobborghi di Londra per volontà del diciassettenne Laurie Mansworth.
Laurie, poco prima del Monsters Of Rock festival, lascia i More alla fine del 1981, per intraprendere un percorso musicale diverso da quello della band madre.
Il nucleo originario degli Airrace viene assemblato in un tipico pub inglese, il Faunce Arms, e annoverava come vocalist Phil Lewis (in uscita dai Girl e futuro L.A. Guns), Simon Tomkins (della local band Bordello) e Jim Reid; in seguito, si unisce al combo anche il bassista Toby Sadler (ex-White Spirit).
Al Marquee gli Airrace vengono notati da Peter Grant, manager dei Led Zeppelin, che introduce un nuovo batterista: Jason Bonham (!), per il quale gli Airrace rappresenteranno la prima vera esperienza musicale.
Contemporaneamente all’entrata di Jason, Lewis viene sostituito dal “virtuoso” Keith Murrel, più adatto alla proposta musicale del combo. Nel frattempo, Grant ospita gli Airrace nella Horselunges Manor, l’infausta magione del Sussex, conosciuta per essere stata prima la dimora dell’occultista Aleister Crowley e, successivamente, proprietà di Jimmy Page, che la immortalò nel celebre film “The Song Remains The Same”.
Gli Airrace incominciano a farsi conoscere grazie al tour di supporto di “Pyromania” ma qualcosa sembra andare storto e la situazione contrattuale diventa torbida, intricata, rallentando l’ascesa del complesso: Grant scompare, le sorti del progetto sono incerte ma sembra che tutto si risolva brillantemente. Il nome prestigioso di Jason giova agli Airrace la firma con l’Atco (sussidiaria dell’Atlantic) ma è la classe del combo a convincere la major, tanto da ottenere i servigi di Beau Hill, che curò nello stesso anno il famoso “Out Of The Cellar” dei Ratt.
Album d’esordio, unicum della carriera del quintetto. È puro feeling trasposto in musica: il disco è un lavoro dal taglio personale e maturo, che sancisce l’anthem indimenticabile “I Don’t Care”.
A dispetto del titolo, il connubio tra il drumming (compatto e preciso) e la tastiera mostra una song avvincente nella sua immediatezza e strutturata al tempo stesso: sulle scale frenetiche della keyboard si staglia Keith Murrel, con voce alta e chiara, soffermandosi in brevi pause scandite dal sottofondo tastieristico; il delight è il duetto tra il main vocal e il prorompente chorus che doma la ritmica rocciosa di Jason con variazioni tonali armoniose, dalla grande estensione vocale.
L’andamento sostenuto di “Promise To Call” è disegnato dall’incedere di basso ritmato in sottofondo dalla batteria; sempre in risalto la voce squillante di Murrel, prima in solitario, poi all’unisono con il coro, dove l’estensione vocale viene prolungata quasi all’estremo, per un effetto lirico, più affettivo che epico (la song in questione piacque tanto a Brian May tanto che il guitar hero l’ascoltava con il suo walkman e la suonò nel backstage come soundcheck nel tour di “The Works”).
Un highlight da non perdere è “First One Over The Line”, che può avvincere facilmente grazie alla maestosa melodia del ritornello, feedback di pura energia forgiato sulla timbrica solare ed enfatica.
L’intro è invece un espediente semplice ed efficace, costruito sulla chitarra vigorosa che squarcia la delicata linea melodica intessuta dalla tastiera: un chiaroscuro che diventa incalzante quando Bonham percuote con colpi secchi le casse della batteria mentre si fa spazio il frontman con voce dapprima velata, poi sempre più concitata, dove il culmine della tensione sfocia nel coro. La canzone continua pulsante, per fermarsi in brevi synt che fungono da stacco e punto di congiunzione degli “acuti” penetranti della sei corde, vividi come una promessa. Chiudono voci tenui, ricche di tensione, che sfumano in lontananza.
Grande pomp rock è la ritmica d’apertura di “Open Your Eyes”, ove il cantante fa vibrare la voce mantenendola a tonalità non elevate ma sostenute; la chitarra è mutevole: prima cadenzata, poi drammatica in un vibrato splendido, elegante, teatro perfetto in cui Keith cerca di resistere all’invito dei backing vocals: “Open Your Eyes”. Gli innesti “dissonanti” della sei corde si impostano con armonia in successione, per poi lasciare spazio al repeat dello schema.
Ancora attuale, quasi “modernista”, è la batteria di “Not Really Me” mentre il basso si intromette con un pattern hard rock duro e uncinante, al quale partecipa la chitarra che ne ripete il “mood” ad una tonalità maggiore; pausa e i backing elevano la voce di Keith, che non teme di avventurarsi su tonalità altissime e prolungate.
“Brief Ecounter” ci trasporta nell’atmosfera fatata di un breve istante, con i suoni magici della tastiera in primo piano contrastati da un suono scuro, cupo, quasi incombente in sottofondo; il chiaroscuro si interrompe e le note sognanti discendono come una leggera pioggia, sotto la quale l’interpretazione di Murrel indulge in un lento e si eleva delicatamente cullando l’ascoltatore: al crescere del lead vocal aumenta il volume dell’accompagnamento, ritorna il sottofondo oscuro dell’esordio e dall’apice vocale la chitarra entra con brevi, bassi accordi. Il ritornello che segue è strutturato con gusto e intelligenza: l’elevazione del frontman costituisce il punto d’entrata dei backing e dell’assolo vibrante dell’ascia, creando un collettivo sonoro elegante ma d’impatto; segue la seconda parte del ritornello, dove Keith ripete la strofa assistito dai fedeli comprimari mentre il pattern di chitarra è “morbido”, creando uno splendido “ossimoro musicale” valorizzato dal tintinnio dei piatti in rilievo.
Un fraseggio ruvido con un abile stacco di batteria è il biglietto da visita di “Caught In The Game”: anche in questo caso il tocco delle keyboards è appena accennato ma efficace, sempre in contrapposizione con la ritmica, per così dire, “granitica” mentre il singer si “lancia” nell’intreccio musicale, mantenendo una voce squillante e cristallina, con brevi support dei backing in corrispondenza delle variazioni della sei corde. Il brano sembra procedere con regolarità ma gli Airrace sono capaci di stupire senza preavviso l’ascoltatore: la chitarra esegue un fraseggio a spirale, in crescendo, inframezzato dalle brevi pause da cui emergono distorsioni stridule.
Per la prima volta è Murrel a introdurre la composizione gridando il titolo della track (“Do You Want My Love Again”) e l’incedere di Bonham non si fa attendere: la voce è dinamica, serpeggia attraverso tonalità medie e alte nel declamare la parte conclusiva di ogni verso, mentre il riff di basso sospinge il vocalist sulle tipiche sonorità dell’hard rock sanguigno e sincopato. Il ritornello è un’alternanza di coro, lead vox (alto) e pause, in cui si inserisce l’escursione solistica della sei corde, una lunga session culminata dall’immancabile ossessiva, oscillazione del pitch (rimarcata più volte).
E’ il drumming cadenzato ad aprire “Didn’t Wanna Lose Ya”, mentre la linea melodica si sviluppa da brevi “plettrate” per evolversi in un pattern quasi stridente, seguita dalla voce penetrante e acuta, ricca di pathos. L’andamento degli strumenti accelera, l’intonazione di Murrel si eleva e sulla scia del cantato si inserisce un accordo dalla tonalità bassa mentre, con il ritorno della voci alte e dilatate, Mansworth amplifica il suono quasi ad unire in un sodalizio il cantato e il songwriting. L’inframmezzo è dominato prima dal basso che lascia il testimone al guitar solo secondo un gioco ad incastro. La parte finale è affidata ad un alterco tra voce guida, cori e sporadici intervalli, il tutto esaurendosi nel prolungato vocalizzo di chiusura.
L’essenza dei Magnum sembra racchiusa nei rintocchi cristallini delle tastiere del penultimo brano, ma gli Airrace si risvegliano con un sanguigno groove di basso in rilievo e Murrel da rinnovato sfoggio di innato talento amplificando la melodia con voce carica ed espressiva, relegando i backing al termine della strofa, dove la risposta suona limpida, gioiosa, sincera: “All I’m Asking You”.
L’insuccesso commerciale dell’album decretò la rapida fine del quintetto, che fu impossibilitato a pubblicare un secondo disco per ragioni economiche.
Successivamente, Keith Murrel partecipò a “Growing Up The Hard Way”, album del 1987 dei Mama’s Boys, il cui singolo “Wainting For A Miracle” raggiunse la top 10 nelle stazioni rock statunitensi ma non riuscì ad affermarsi per problemi menageriali. Murrel prestò le sue doti come session singer a star del pop quali Madonna, Cher, George Harrison e ai celebri rockers The Who (servono presentazioni?).
Jason si unì ai Virginia Wolf prima di formare i Bonham. In seguito, il famoso batterista suonò con UFO e Foreigner, senza dimenticare la leggendaria reunion del 2007 dei Led Zeppelin al O2 Arena di Londra.
Ma allora cos’è andato storto nell’avventura degli Airrace? E’ la domanda abituale che ci poniamo e che si sono posti anche gli addetti ai lavori: in realtà, al di là dei soliti cliché, gli Airrace avevano tutte le carte in regola per sfondare (ottime canzoni, grandi musicisti, un contratto prestigioso e un producer in ascesa) ma forse fu il periodo di transizione (fine della NWOBHM) e/o un pubblico distratto dai colossi del genere a impedirne l’affermazione.
Probabilmente, incisero anche scelte non azzeccate, come il tour con Ted Nugent, le cui “maniere educate” fecero guadagnare agli Airrace un’esibizione improvvisata quando i musicisti stavano ancora effettuando il soundcheck! Senza parlare delle tappe francesi del tour degli AC/DC , dove i fan dei Mötley Crüe bersagliarono i malcapitati per l’assenza (non annunciata e non giustificata) dei loro beniamini…
Episodi tragicomici a parte, ciò non toglie che il combo seppe farsi apprezzare dai fans dei Queen tanto che i Nostri fecero esclamare agli adepti di Freddy Mercury un’unica, significativa frase: “Shaft of light”!
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