Recensione: Shangri-La
Strutture affascinanti i ponti. Imponenti, robusti e durevoli, capaci di sorreggere carichi massicci senza piegarsi, spesso neanche di fronte allo scorrere del tempo. Ho sempre pensato che fossero tra le costruzioni più ingegnose di ogni epoca; certo, leggendo questa mia introduzione vi chiederete se non vi siate imbattuti nel sito sbagliato, cercando altresì una di quelle fatiscenti homepage con dentro decine di foto di queste sopracitate creazioni architettoniche. Posso assicurarvi, amici lettori, che siete esattamente dove dovreste trovarvi e che la storia che sto per narrare ha come soggetto un ponte e il paradiso. Ditemi, dunque, vi va di intraprendere questo viaggio insieme?
Anno 1998.
Band come Stratovarius e Rhapsody danno alla luce album di un power metal sublime, insegnando al mondo che si può divulgare questa bellissima musica anche attraverso virtuosismi epici e ugole celestiali; nello stesso anno, in Austria, dalla mente di Arne Stockhammer e Sabine Edelsbacher, inizia a prendere forma quella che col tempo diverrà una nuova creatura, splendente e affascinante come il nome che le verrà donato: Edenbridge. Quando mi sono imbattuto per la prima volta nell’ascolto della band, ho potuto subito notare come il sound dei primi album fosse effettivamente ricco di quella potenza ed enfasi che ritengo fondamentali al fine di trasmettere la vena epica del vero power metal; dunque le premesse erano più che promettenti. Facendo varie ricerche, però, la scoperta delle modifiche nella line-up d’origine ha destato in me non poche perplessità riguardo a ciò che gli Edenbridge avrebbero potuto partorire e questo perché tendenzialmente, a ogni sostituzione di un componente, non possiamo mai essere sicuri che la musica resti la stessa o, quantomeno, fedele alle radici che ci hanno fatto affezionare ai nostri beniamini.
Devo ammetterlo, non mi aspettavo un disco del genere e per vari motivi. A un primo ascolto, ciò che ho percepito è stato uno degli album meno trascinanti e al contempo fiacchi che mi siano capitati negli ultimi tempi; qualcosa però non tornava, portandomi dunque a dargli più di una chance ed ecco che, finalmente, ho trovato ciò che creava quel divario tra un’ottima impressione e un’amara delusione. Generalmente in un album metal, dando per scontato che le parti strumentali siano ben concepite, ciò che risalta subito all’ascolto è la linea vocale, ed è proprio nelle note della vocalist Sabine Edelsbacher che si racchiude la chiave di volta di questa ultima fatica della band. Risultano spesso assenti, infatti, sostanza e grinta, caratteristiche che dovrebbero invece permeare ogni traccia, trascinando l’ascoltatore in quella impetuosa tempesta adrenalinica tipica del power.
L’album si apre con “At First Light”, brano decisamente troppo lungo da inserire come opener, vista la sua durata di otto minuti, ma che riesce a difendersi piuttosto bene nonostante una melodia poco frizzante e un ritornello non troppo energico. Tutt’altra analisi va invece riservata a “The Call Of Eden”, dove sia le parti strumentali. sia le linee vocali. riescono a dare un impatto davvero niente male all’ascolto, che procede liscio come un buon calice di vino davanti a un camino acceso. “Hall Of Shame” non ha niente da invidiare alla precedente e, al contrario, introduce il primo ritornello davvero degno di nota, tutt’altro che un muro della vergogna. Parlando di titoli controversi, la quarta traccia, “Savage Land”, calma gli animi, rilassa le menti ma, purtroppo, non trasmette ciò che una ballad dovrebbe e si rivela la prima vera delusione di questo album. Ciò che sicuramente emerge finora è un’attenzione particolare rivolta alle partiture strumentali, che si contrappongono a ritornelli e linee vocali non altrettanto piacevoli e apprezzabili. Resta però ancora una buona porzione di disco da gustare e la successiva “Somewhere Else But Here” si presenta come una portata sfiziosa e succulenta, proprio quello che ci voleva per ravvivare gli animi e rimetterci sulla dritta via: ottimo ritornello, riff azzeccati e la voce di Sabine che ci porta altrove, pronti per proseguire il nostro viaggio.
Arrivato a questo punto mi sono posto una domanda, che voglio riportare anche a voi, cari amici lettori: «Quanto è bello sorprendersi?». Ebbene sì, la sesta traccia di questo Shangri-La, “Freedom Is A Roof Made Of Stars” mette il turbo e dimostra come il power metal sia presente anche in questo album, fiero e grintoso come non lo è stato fino ad ora: chitarre possenti, una sezione ritmica da togliere lo stucco dalle pareti e l’ugola magnifica della vocalist che mette l’accento su ogni singola nota: in poche parole, il pezzo più bello fino a questo momento.
I due brani seguenti, “Arcadia (The Great Escape)” e “The Road To Shangri-La”, non aggiungono né tolgono niente a ciò che la band ha donato all’ascoltatore fino a questo momento e si presentano come due pezzi easy-listening e piacevoli, ma senza picchi degni di nota. Tra alti e bassi, momenti epici e qualche delusione, siamo arrivati quindi alla conclusione di questo viaggio, che ci vuole regalare però una perla che non può restare inosservata. La traccia finale, “The Boading (part 2)”, dalla solenne durata di quindici minuti e ventisette secondi, spalanca le porte del paradiso. I cinque atti che dividono la suite finale dell’opera sono la rappresentazione perfetta di come un disco può redimersi dai propri peccati, garantendosi così l’accesso alle porte dell’Eden del metal. Ascoltando ogni sezione mi sono chiesto più volte quale fosse la ragione per la quale la band avesse lasciato tutto questo ben di Dio proprio nel finale, rischiando di generare così emozioni contrastanti negli ascoltatori; ma non spetta a me dare una risposta a questo quesito, dunque lascio a voi, amici lettori, l’ardua sentenza.
Shangri-La ha avuto il potere di tenermi incollato alle cuffie per ore, trasmettendomi emozioni diverse, grazie alla qualità dei suoi musicisti, alla singolarità vocale di Sabine, ai momenti epici e anche a quelli meno entusiasmanti. Ogni traccia crea inevitabilmente delle riflessioni, facendo sì che l’opera risulti comunque sempre interessante. Non abbiate dunque paura ad attraversare quel ponte, perché per quanto sia turbolenta la strada davanti a voi, il risultato finale, vi aprirà le porte del paradiso.