Recensione: Shells

Di Roberto Gelmi - 4 Marzo 2025 - 12:00
Shells
88

Il 2025 non è solo l’anno del ritorno in grande stile dei Dream Theater: dopo uno iato di quasi vent’anni danno alle stampe un nuovo full-length anche gli Everon, ormai ascrivibili nel ristretto novero delle band di culto. I conoscitori del buon progressive ricorderanno, infatti, dischi come Fantasma del 2000 e North del 2008, il sound inconfondibile del gruppo di Krefeld (stessa città dei Blind Guardian) che riesce magistralmente a unire pathos e potenza metal grazie al timbro peculiare e al carisma di Oliver Philipps, produttore e cantante storico del combo.

È un piacere ritrovare il loro mitico logo, accostato all’ennesima copertina suggestiva, e l’eclettismo che li contraddistingue. Le danze si aprono senza overture pleonastiche. “No Embrace” è un opener capace in pochi secondi di farci tornare indietro nel tempo regalando subito le tessiture armoniche e la magia del sound targato Everon. Chitarre potenti, tastiere ariose e la voce di Oliver Philipps, narratore profetico: cosa chiedere di meglio? Siamo di fronte a una perfetta sintesi di antico e moderno.

A sorpresa il secondo brano in scaletta è un mid-tempo, con note di pianoforte e violoncello. “Broken Angels” è un pezzo poetico – arricchito dalla presenza “infernale” di Helena Iren Michaelsen (moglie di Oliver Philipps e attiva con gli Imperia) come special guest – e che a tratti esplode in momenti di potente energia chitarristica. Da questa scelta coraggiosa si capisce come gli Everon puntino a un eclettismo senza mezzi termini e abbiano curato l’album nei minimi dettagli.

Travels” è una sorta di ballad cullante con dinamiche trascinanti e inserti orchestrali in pieno stile Everon: grandiosità pomp rock da manuale, complice una produzione cristallina.

E arriviamo a uno dei momenti migliori di Shells. Parliamo di “Pinocchio’s Nose”, brano dal titolo folle e sonorità folk con tanto della splendida Leah al microfono come voce aggiuntiva. Un viaggio sonoro da brividi, rinvigorente e sognante, dove tutto è al suo posto, nessuna nota è di troppo; la parte ritmica martella a dovere e la chitarra di Ulli Hoever risulta tagliente e ispirata.

Il disco prosegue senza cali qualitativi, dimostrando un’attenzione notevole nel songwriting. I primi secondi di “Monster” potrebbero comparire su un disco dei grandi Shadow Gallery, mentre il ritornello coraggioso in growl è spiazzante quanto basta ma senza risultare avulso dal contesto complessivo. L’ennesimo assolo di chitarra in chiusura di brano è sempre benaccetto.

La title-track “Shells” è una bordata di rara potenza, con le harsh vocal di Helena Iren Michaelsen incastonate all’interno di una cornice sonora che non fa sconti. Pezzo tiratissimo, ma gli Everon si muovono anche in questa dimensione senza snaturare la loro identità. Tanto più che segue una ballad di rara delicatezza come “Grace”, con incluse parti in clean vocal femminili. E che dire dell’intricata “Guilty as Charged”? Partiture progressive accostate a melodie da brivido, un perfetto ibrido tra Kamelot e Dream Theater. Attorno alla metà del quinto minuto, inoltre, il brano sembra concludersi, quando invece risorge dalle ceneri con un assolo di chitarra magistrale che crea una sinergia potente con le ritmiche droppate e i sintetizzatori spaziali. Momento memorabile.

In chiusura di album troviamo tre brani corti e una mini-suite da 15 minuti. “Children of the Earth” è un inno alla fratellanza umana, a contare è il testo, quasi una preghiera, non ci sono chitarre elettriche. A questo momento alato segue la sorprendente strumentale “OCD”, il cui unico neo è la durata eccessivamente contenuta. Avremmo voluto durasse più a lungo, ma resta comunque un gioiellino.

Until We Meet Again” è un’altra composizione degna di nota, dedicata allo storico batterista Christian Moos, scomparso nel 2024 (come apprendiamo dalla pagina Bandcamp della band Moos è venuto a mancare dopo aver completato otto tracce; le restanti sono state completate dal batterista Jason Gianni, attivo con Neal Morse e Trans-Siberian Orchestra). Infine bisogna parlare ovviamente della magnifica “Flesh” (title-track del platter del 2002), pezzo più lungo mai registrato dagli Everon, che vogliono stupire dimostrando una sana ambizione compositiva. La band tedesca riesce a dipanare una serie di atmosfere variegate, il tempo sembra sospeso a tratti e l’alchimia che si viene a creare tra i membri della band è all’apice: ci sembra di vivere in una giornata d’infinito autunno con improvvise schiarite di sole luminoso. I testi a tratti profetici, inoltre, conferiscono alla musica un surplus di incisività che avvicina gli Everon ai giganti newyorchesi capitanati da John Petrucci.

Shells dura più di 70 minuti ma dopo un’attesa così lunga i fan troveranno l’album anche troppo breve. Sì, perché parliamo di un disco generoso nel minutaggio, nella freschezza delle melodie e nell’impatto emotivo, ma musica così sincera e genuina non è mai bastante. Ci sono pezzi potenti, altri più delicati, brevi parti in growl, inserti folk, momenti quasi metafisici, difficile sintetizzare a dovere tutte le coordinate sonore che s’incontrano nell’ascolto.

Gli Everon in definitiva con Shells hanno composto la miglior epitome del loro storico trademark, fondendo sonorità heavy, prog e rock. I Dream Theater restano i loro numi tutelari, così come certi Symphony X, i Kamelot e i Threshold, in sostanza quanto di buono ha dato il prog. negli anni Novanta. Quello che riesce al gruppo tedesco, tuttavia, è rilanciare la propria identità, profondendo tecnica e impegno in quanto mettono in musica.

Shells finisce dritto nella top 10 dei dischi dell’anno, non lasciatevelo scappare!

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