Recensione: Shem Ha Mephorash

Di Alessandro Marrone - 21 Ottobre 2019 - 0:00
Shem Ha Mephorash
Band: Mephorash
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2019
Nazione:
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75

Gli svedesi Mephorash incarnano al meglio la grandiosità del black metal più ambizioso e privo di barriere di ogni sorta. Lo si percepisce in qualche modo già dall’elegante artwork che troviamo in copertina e nel libretto stesso, per una volta lontano anni luce dall’obbligatorio schema in bianco e nero, dove ci si presenta un dettagliato disegno che richiama un cupo affresco, mettendo in risalto pochissimi ma forti dettagli in rosso carminio. Shem Ha Mephorash è il quarto disco per la band che ha visto la luce nel 2011 e mai come in questo caso si trasforma ancora arrivando a noi con un album a dir poco impegnativo. La dice lunga infatti anche la lunghezza di quest’opera, ovvero 1 ora e 14 minuti che si articolano attraverso solo 8 tracce. Non un ascolto facile per intenderci, dove anche chi è pronto ad accogliere qualcosa di inusuale e lontano dai classici schemi metal (e black metal) ha pane per i propri denti. In realtà, si può digerire il full-lenght in due maniere diametralmente opposte ma ugualmente efficaci, dove ogni brano è in grado di introdurre, raccontare e sviluppare al meglio la sua identità, oppure prendendo le tracce nella loro interezza avendo anche una maggiore percezione del mondo in cui i Mephorash ci vogliono gettare, un disegno ampio e ricco di quella ferocia che contraddistingue ciò che gli amanti del black si attendono, ma con una forte connotazione che ne disegna un background dai toni cerimoniali, una strada raramente intrapresa così a fondo da altre band.

 

Come detto, ogni canzone gode di un patrimonio individuale e se la opener King Of Kings, Lord Of Lords introduce all’ascoltatore quello che a tutti gli effetti sarà lo schema permeato nella prossima ora di ascolto, già dalla traccia successiva – Chant Of Golgotha – si può apprezzare come i Mephorash diano il meglio quando si allontanano dagli schemi più tradizionali e puntano invece su ritmiche più cadenzate, capaci di spalancare le porte verso un mondo diverso dal solito, dove la linea vocale non risulta mai scontata, anche quando le chitarre non eccellono in quanto a stravolgimento degli schemi, aspetto che mi sarei aspettato di notare in maniera più calcata, soprattutto tenendo conto delle ambiziose aspettative dell’opera. L’ascolto prosegue e il quartetto svedese sembra puntare molto anche su quelle atmosfere che vengono messe come incipit di ogni brano, per il fine ultimo di contrastare maggiormente l’ingresso delle chitarre e le sporadiche comparse di tempi veloci, sino all’immancabile blast beat, peraltro molto convincente.  777: Third Woe riesce a riportare la nostra attenzione sui livelli di inizio album, superando di netto la piacevole Sanguinem che intermezza Epitome I ed Epitome II, quest’ultima forse la più inutilmente prolissa, in particolar modo se state digerendo il disco dall’inizio alla fine.

 

Nel caso di 777 si percepisce un maggiore ordine delle cose, una incisività che gode delle parti più tirate del brano stesso, il quale lascia poi spazio alla conclusiva title-track, una piccola suite di 15 minuti che come l’opener riesce a inglobare ogni più piccola caratteristica dei Mephorash, dimostrando come si possa essere estremi, ma non soltanto per la faccia violenta della propria musica. Shem Ha Mephorash non è un disco semplice, andrebbe affrontato per gradi come si fa con le grandi opere e nonostante non lo reputi un capolavoro e nemmeno il punto di arrivo della band, è senza dubbio in grado di crescere nelle nostre preferenze man mano che gli si concede il giusto spazio e il giusto tempo. Ascoltare una canzone alla volta, con rigorosa attenzione e con la voglia di ripartire da capo per coglierne davvero l’oscura essenza pare essere la strada migliore. Dategli una possibilità, ma prima chiedetevi se siete pronti a farlo.  

 

Brani chiave: Chant Of Golgotha / 777: Third Woe

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