Recensione: Shining
Il black metal è pieno di personaggi cattivi. Più o meno.
Quello che in principio era un requisito che con il trascorrere degli anni ha scremato le fila di un genere che nonostante abbia mantenuto la propria forte connotazione estrema, pare oggi davvero fin troppo affollato, ha visto i pionieri del genere dividersi in due strade, quella di una pseudo redenzione e quella di una eterna dannazione. Lo so, stiamo estremizzando, ma quando si trattano certe materie oscure, è invitante creare un’atmosfera che possa accentuare quell’alone di mistero che avvolge alcune tra le più drammatiche pagine della storia di questo genere, in numerosi casi finite a corredo di tragici fatti di cronaca. Mi riferisco per l’appunto a chi ha fatto della propria vocazione artistica una missione con una direzione a senso unico verso l’abisso, una via senza più ritorno che inesorabilmente ha posto – in modi differenti – la parola fine su alcuni nomi che hanno rappresentato le fondamenta del genere.
Sulla lama di un rasoio a lui tanto caro troviamo un certo Niklas Kvarforth, personaggio borderline che dal finire degli anni 90, quando era ancora un giovanissimo ragazzo, mette la propria anima e il proprio involucro carnale al servizio di una raffigurazione che non conosce compromessi e che non intende piegarsi al politically correct. Cosa ci può essere di più estremo della follia? Quella vera. Niklas è stato infatti numerose volte protagonista di spettacoli sanguinari, arrivando addirittura a inscenare la propria morte, prima di apparire sul palco durante un concerto di una band che in tutto e per tutto rappresenta la sua anima. Gli Shining hanno letteralmente spinto i confini del black metal nella direzione più oscura, fregandosene della violenza sonora conferita dalle canoniche velocità per scendere nell’assenza totale di luce generata da un sound cupo, asfissiante e con testi che istigano al suicidio, a tal punto che il frontman stesso si ritiene soddisfatto quando dei fan si tolgono la vita nel nome degli Shining. Estremo, allo stato puro. Ecco perché sono sorpreso se dopo 23 anni dall’eccezionale debutto con Within Deep Dark Chambers, Niklas non ha ancora esaurito (il sangue nelle vene) la capacità di scrivere musica fedele al suo io più profondo.
L’undicesimo capitolo degli Shining si fa attendere 5 anni e segna un passo importante, a tal punto che Kvarforth decide di battezzarlo con l’omonimo nome della sua band, a riprova che tutto ciò che ha dato nel corso di questi anni rappresenti tutt’oggi l’incarnazione della sua vita messa in musica. “Gli Shining mi hanno letteralmente distrutto la vita […] Sono pronto a continuare a sacrificare tutto me stesso per questa band […]” – dice lui. Quale altra dichiarazione di massima dedizione si potrebbe dare? Follia che non viene messa soltanto in musica e parole, tantomeno nei gesti estremi che caratterizzano le sue performance live o una qualsiasi intervista: gli Shining – che piacciano o meno – sono la sadica e violenta raffigurazione di ogni loro brano e questo nuovo album è pronto a dare nuova energia utile all’autodistruzione.
Già, la musica, perché stiamo pur sempre parlando di un nuovo disco, un lavoro tanto atteso quanto guardato con diffidenza, quasi per la paura che il passare degli anni e una naturale maturità artistica possano incidere negativamente sulla vena compositiva del mastermind. Affiancato da un quartetto di musicisti di primo livello, tra cui l’immenso Nick Barker alle pelli, Shining esprime maturità ed emotività sin dai primissimi minuti della opener Avsändare okänd (mittente sconosciuto), con un Kvarforth in forma come non mai e una tessitura chitarristica impreziosita (da Peter Huss e) dai numerosi cambi di tempo che preparano l’ascoltatore per qualcosa di estremamente coinvolgente. Il livello si mantiene elevato ma devia su un registro più lento con la successiva Snart är dom alla borta (presto se ne andranno tutti), che pregno di solitudine porta alla mente i primissimi lavori della band.
Allt för döden (tutto per la morte) è una lunga e ispirata cavalcata che alterna parti più veloci a digressioni malinconiche che saranno pura delizia in chiave live. Le chitarre dissonanti e la voce martoriata da anni di grida ci accompagnano attraverso un lavoro ancora una volta introspettivo e che dimostra come gli Shining godano di ottima salute, a riprova che la qualità può ancora avere la meglio sulla quantità (qualcuno ha detto Satyricon o Dimmu Borgir?). Fidelis ad Mortem (fedele fino alla morte) funge da spartiacque, con il suo lento avanzare e un coro ripetitivo ci guida verso la successiva e triste Åttahundratjugo (820), cover di Erik Satie, in cui un pianoforte è tutto ciò che occorre per lasciare che i pensieri si posino su un terreno privo di vita, proprio come questo undicesimo disco, capace di unire rabbia e tristezza nello stesso freddo abbraccio di morte. La chiusura – almeno per questa volta – spetta a Den permanenta sömnen kallar (il sonno permanente chiama) che nei suoi oltre 10 minuti racchiude tutte le forme di espressività scaturite dalla mente di Kvarforth. Un degno epilogo per un disco maledettamente significativo e di assimilazione non facile come sembrerebbe ad un primo ascolto.
Ciò che Shining (il disco) racconta degli Shining (la band) è infatti un percorso introspettivo capace di mutare a seconda della posizione in cui si pone l’ascoltatore. Come un prisma di tonalità che variano dal grigio al nero più profondo, Niklas Kvarforth ha saputo ancora una volta introdurre elementi che sapranno appagare chi lo segue dai primissimi anni, almeno quanto possono soddisfare quelli che inspiegabilmente non hanno ancora dato una possibilità al suo imprevedibile genio malato. Ciò in cui gli Shining restano forse inarrivabili è la sincerità che viene percepita, soprattutto nei tratti più lenti e riflessivi, dove se si è capaci è possibile cogliere dettagli che non possono essere studiati a tavolino, ma che sono il risultato di un artista controverso e costantemente sull’orlo della fine, esattamente come la maschera di rabbia e cattiveria ben impressa in copertina.