Recensione: Sign Of The Wicked [re-release]
Con un nome da corriere espresso e tre facce da operai della bassa Sassonia, gli S.D.I. esordiscono nel 1986 con un album il cui titolo spiega cosa in realtà significhi il loro monicker (assai poco proletario e molto minaccioso: “Satans Defloration Incorporated“). Da allora gli album in carriera saranno ben quattro, tre negli ’80 e l’immancabile “disco del ritorno”, pubblicato proprio quest’anno nel 2020, per altro con un altro titolo manifesto, “80s Metal Band“. Il loro centro nel bersaglio tuttavia rimane, a mio parere, la seconda prova discografica, “Sign Of The Wicked” (1988), la cui qui presente ristampa altro non è che la versione fisica di quella esclusivamente digitale uscita nel 2005 per Battle Cry Records, corredata di 4 bonus track che avrebbero dovuto costituire le basi per un ipotetico quarto lavoro dopo “Mistreated“, registrate tra il 1991 ed il 1993 (quattro tracce non esattamente stellari, per la verità). Non senza una certa ironia, nel 2017 in occasione di un demotape propedeutico al loro rientro sulle scene, l’interpretazione del monicker passò dalle sue velleità sataniche a quelle più al passo con l’età (S.evere D.eaf I.ndividual, ovvero “individuo gravemente sordo”).
Collocato da subito in ambito speed/thrash metal, il trio in effetti gravitava più propriamente all’interno di un heavy metal ruspante, poderoso e indubbiamente velocissimo, certamente anche con accenni thrash, ma tutto sommato più heavy. La provenienza della band la si indovina ad occhi chiusi, anche senza avere alcuna informazione al riguardo, gli stilemi della scuola tedesca ci sono tutti. Un arpeggio delicato e dal sapore vagamente folkeggiante fa da preludio ad una bomba nucleare rispondente al titolo di “Coming Again“, doppia cassa a manetta, velocità livello Sustenium Plus, gran melodia e chorus buttato quasi subito in faccia all’ascoltatore. Non siamo lontanissimi dagli Helloween pre Kiske, anche se qui il suono è più rotondo e meno ispido, complice anche una Produzione davvero notevole. Lungo i 6 minuti scarsi ci si rende facilmente conto che gli S.D.I. non sono soltanto centometristi con la fregola del soprasso sul rettilineo, la canzone ha corpo, struttura, cambi di tempo e di atmosfere, anche se la melodia rimane l’architrave portante. Non vi suoni troppo bizzarro se vi dico che, ascoltando e riascoltando con attenzione, qua e là avvampano persino degli estemporanei bagliori dentro i quali s’intravede la rugosa silhouette di Dave Mustaine e dei suoi Megadeth.
Non si fa in tempo ad assaporare le gioie dell’indicatore di velocità sul cruscotto, che la title-track arriva a sparigliare le carte, calandoci in atmosfere più dark e sulfuree. Ci pensa “Megamosh” (tipico titolo dal gusto un po’ grossier alla tedesca) a rinforzare le vostre difese immunitarie (aridanghete col Sustenium!) , scaraventandovi nel mosh pit degli S.D.I., con il consiglio di tenere a portata di mano il numero di un buon ortopedico. Un pregio della band è certamente l’essenzialità, non la tirano per le lunghe i ragazzi, un cazzottone in faccia e via, avanti col prossimo pezzo in scaletta. “Alcohol” è probabilmente una delle mie preferite; si parte con una ritmica dinoccolata un po’ alla Raven, per poi assestarsi su un 4/4 di granito e conseguentemente su di un chorus – inutile dirvi quale sia l’argomento delle lyrics – muscolarissimo e indiavolato (grazie anche alla doppia cassa di supporto). Con “Quickshot” è ancora e sempre speed metal, sparati all’orizzonte come se non ci fosse un domani. Riffone portante che farebbe invidia ai Saxon periodo “Strong Arm Of The Law” e pedalare. Volete fare scopa (l’ennesima)? Accontentati, ecco “Always Youth“. Ancora non ne avete abbastanza? D’accordo, “Long Way From Home” è qui apposta, con la frenesia delle strofe che si scioglie in un ritornello carico di tensione. In “Killer’s Confession” la melodia torna nuovamente in primissimo piano, permeando di sé l’intero pezzo, killer di nome e di fatto. Impossibile non scapocciare, grazie anche ai continui interventi di cesello della batteria (ma per tutto l’album pure gli assoli di chitarra si fanno notare). Interessante la parte mediana, che se ne va altrove senza far perdere un briciolo di tiro al songwriting.
La tracklist originale si chiude con “Fight“, introdotta da un prologo in lingua nipponica (qualcosa di molto simile allo speaker di un telegiornale); se avevate paura che proprio in coda gli S.D.I. potessero deludervi rallentando i battiti-per-minuto, potete dormire sonni tranquilli, il treno sferraglia fino all’ultima nota della scaletta, si combatte fino a che non ce n’è più (rock until you drop…. diceva qualcuno). Seguono le quattro tracce bonus, dal piglio decisamente diverso. La band sembra trasfigurata, solo “Ruling The World” si conferma vagamente in linea col materiale di “Sign Of The Wicked“; per quanto riguarda le altre 3, il metronomo rallenta vistosamente, affiora una componente hardrockeggiante (e fin qui, niente di male), tuttavia si avverte una certa lagnosità di fondo, complice anche un peggioramento delle linee vocali di Reinhard Kruse. Sentite così, quel che viene da dire è che la mancata pubblicazione dell’album non sia stata poi una gran perdita. Lo sarebbe invece privarsi di questa ristampa nel caso non possediate già “Sign Of The Wicked“, uno di quei lavori magari di secondo piano rispetto ai grandi nomi della scena anni ’80 e segnatamente tedesca, ma potreste mai vivere senza avere nella vostra collezione una delle copertine più brutte di sempre della storia dell’HM?
Marco Tripodi