Recensione: Signify

Di Invictus - 3 Novembre 2002 - 0:00
Signify
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 1996
Nazione:
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85

E’ il 1996 quando Steven Wilson e soci , da band underground di culto, riescono ad imporsi agli occhi del pubblico e della critica (a dir il vero anche grazie al grandissimo e generoso supporto di una emittente radio romana) con questo splendido “Signify”.

Definirlo propriamente metal non renderebbe giustizia ad un disco che per la propria ispirazione attinge a piene mani alla tradizione psichedelica e progressiva (qualcuno ha detto sintetizzatori?), ma fuori dubbio alcuno resta anche il fatto che in alcuni punti i Porcupine non disdegnino una piccola pressione “all’acceleratore”. I brani presenti in questo lavoro sono 12 per circa un’ora di musica allucinata e trasognante, splendidamente interpretata da suggestive (e forse anche un po’ inquietanti) foto di copertina e del booklet. Il lavoro si apre con l’intro “Borlivedie” in cui su di un estatico e stralunato tappeto sonoro siamo invitati all’ascolto del disco. Irrompe così la title track, gemma strumentale costruita su di un riff attorno al quale sintetizzatore e mellotrono s’intersecano creando un suggestivo mix sonoro. “Sleep of no Dreaming” è forse il brano che nel disco risente in maniera più forte della passione dei nostri per la psichedelia, grazie anche al testo cupo ed angoscioso ed alla musica ipnotica e meditativa. “Pagan” è un intermezzo allucinato che con i suoi sintetizzatori spaziali (qui più che mai di barrettiana memoria) ci guida alla track numero 5: “Waiting”. Divisa in due parti la prima, cantata , è una splendida song in cui stacchi acustici e tastiere lasciano presto spazio ad un guitar solo che ricorda i Pink Floyd più ispirati. La seconda parte di “Waiting”, strumentale, più intimista e ovattata, somiglia sempre più a certi fumi stupefacenti con le sue ossessive percussioni e l’allucinato uso di sampler e sintetizzatori. “…No sense of time…” recita la successiva “Sever” nel suo ritornello, e ascoltandola sembra quasi di essere fuori dal tempo, alienati ed incapaci di reagire di fronte all’inquietante voce finale che ci dice “The only way to survive is on your knees…” ridendoci maleficamente in faccia. “Idiot Prayer” è una strumentale in cui il gruppo dà sfogo a tutta la propria inventiva confermandosi di una classe cristallina. “Every home is wired” è una delicata ballad che ci ammonisce sui rischi del progresso e della tecnologia, a cui segue la strumentale “Intermediate Jesus”. Forse “Light mass Prayer” ossessiva e angosciante oltre ogni limite nel suo uso di sintetizzatori, riesce a trasportarci, ci guida attraverso i luoghi più reconditi del nostro io della nostra coscienza trasportandoci in uno strano labirinto senza uscita in cui le strane figure del booklet sbucano da ogni anfratto. Ma quando crediamo di esserci persi completamente ecco giungere a illustrarci l’uscita “Dark Matter” una splendida amalgama sonora fatta di chitarre acustiche chitarre elettriche e hammond ,che ci spalanca la porta verso lo spazio profondo…verso la libertà totale…verso la materia nera

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