Recensione: Signs

Di Stefano Burini - 6 Luglio 2014 - 11:48
Signs
Band: SKW
Etichetta:
Genere:
Anno: 2014
Nazione:
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68


Nati verso la fine degli anni ’80 come gruppo dedito a sonorità tipicamente groove/nu metal a stelle e strisce, i milanesi SKW hanno poi portato avanti, da allora fino ai giorni nostri, un percorso musicale in continua evoluzione che li ha visti, di volta in volta, recepire e rielaborare le tendenze più in voga.
 
Non fa eccezione il nuovissimo “Signs”, nel quale la formazione meneghina capitanata da Marco Laratro e Simone Anaclerio, si cimenta con la commistione del loro sound “classico” con elementi di matrice melodic metalcore, particolarmente evidenti nei (quasi) sempre indovinati ritornelli in voce pulita.
 
Viste le sonorità e le distorsioni utilizzate dagli SKW, accingendosi all’ascolto di “Signs”, più che i nomi “storici” del metalcore (dai Trivium ai Killswitch Engage, passando per Shadows Fall e As I Lay Dying) sono, forse, gruppi dal taglio meno aggressivo quali i Five Finger Death Punch a balzare alla mente, senza ad ogni modo dimenticare la lezione impartita dai mitici Pantera come pure dai conterranei Extrema
 
Al netto di una proposta tanto ben codificata quanto non particolarmente innovativa, va in ogni caso detto che il nuovo nato di casa SKW intrattiene e diverte come si conviene ad un album pensato e registrato con le caratteristiche appena elencate. La voce di Marco Laratro è abrasiva ma tutt’altro che monocorde, assolutamente a proprio agio tanto nel tipico registro “arrabbiato” sfruttato nelle strofe quanto verso i lidi più melodici che vanno a caratterizzare i refrain in voce pulita. Convincente, seppur privo di particolari guizzi d’ingegno, anche il lavoro di Simone Anaclerio alla chitarra come pure della robusta, ma piuttosto lineare, sezione ritmica composta da Mirko Voltan al basso e da Giancarlo Piras alla batteria.
 
Tra le dieci canzoni in scaletta che si segnalano per la maggiore riuscita vale certamente la pena di annoverare l’opener “Light”, caratterizzata da quella che rimane con ogni probabilità la miglior costruzione melodica di tutto l’album, con un crescendo ottimamente strutturato per culminare nel bel refrain. Assolutamente di livello anche “Amnesia”, molto Extrema, le più articolate “Signs” e “A New D-Sign” (forse i punti da cui partire in ottica di possibili future evoluzioni), la morbida semi-ballata “Never So Close” e la sorprendente cover dei Rush “Red Sector A”. 
 
Meno brillanti, viceversa, la disordinata “Fake Parade” e le melodicamente più deboli “The Final Destination”, “Fail” e “When Tomorrow Becomes Today”, manchevoli in termini di impatto rispetto agli episodi migliori di un album globalmente piuttosto piacevole seppur oggettivamente lontano da vette di eccellenza.

Stefano Burini

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