Recensione: Signs
Terzo album per i power metaller Heaven’s Guardian, pubblicato a ben dieci anni di distanza dal precedente “D.O.L.L.” e dal dvd “X Years on the Road”. In realtà, al primo ascolto di questo “Signs” avevo pensato di trovarmi davanti un gruppo di chiara provenienza centro-europea (leggasi Germania), vuoi per la compattezza quadrata della musica proposta, vuoi per la produzione massiccia e boombastica, vuoi per l’arcigna voce di Flavio Mendez, accostabile a quella di un Chris Boltendhal o addirittura di un Mille Petrozza, che spadroneggia per buona parte dell’album (anche se meno di quanto avrei voluto) insieme alla sua angelica controparte Olivia. Invece vengo a sapere che i nostri provengono dalle assolate lande brasiliane che diedero i natali ad Angra e Dark Avenger, giusto per restare in ambito power. Vatti a fidare dei pregiudizi!
Si parlava di power metal quadrato, caratterizzato quindi da alcuni punti fermi: melodie possenti, riff robusti, sezione ritmica rocciosa e qualche coro dispensato senza soluzione di continuità; a condire il tutto una spruzzatina sinfonica che mi ha ricordato, in un paio di occasioni, i Nightwish del periodo “Wishmaster”.
L’album inizia con l’intro sinfonica d’ordinanza che prepara l’ingresso in scena del gruppo per la successiva “Time”: mid tempo roccioso dall’intenso profumo di heavy rock in cui fin da subito si chiariscono i punti salienti di questo lavoro, con la coppia di voci che si intreccia e si alterna sopra un tappeto strumentale compatto, muscolare e scandito. Bene ma non benissimo, direbbe qualcuno, perché se è vero che il pezzo si gusta senza problemi, è altrettanto vero che non decolla mai, sempre ancorato a terra da una struttura fin troppo lineare e non abbastanza arrembante. La successiva “Strenght” sembra procedere più o meno nella stessa direzione puntando maggiormente sul lavoro delle tastiere e sulla piacevole voce di Olivia, semplice e suadente senza dover ricorrere ad inutili gorgheggi liricheggianti. Anche qui la velocità si mantiene su livelli medi, limitando le sferzate di doppia cassa solo ad un paio di sporadiche occasioni prima di tornare nei ranghi. “Journey” parte con un piglio diverso e più aggressivo, introdotto da tastiere fredde e riff spessi pur mantenendo la velocità saldamente entro i limiti consentiti (nonostante la sezione ritmica sembri sempre mordere il freno implorando di essere lasciata libera di picchiare come si deve): la voce di Olivia conduce le danze (Flavio compare solo in un breve intermezzo), e dimostra di sapersi destreggiare anche su toni più morbidi e soffusi, cedendo ad un certo trionfalismo solo prima del finale.
Con “Fantasy” entrano in scena, dopo un inizio sontuoso, schegge di musica mediorientale ad impreziosire i soliti ritmi contenuti ma al tempo stesso corposi garantiti dal buon lavoro di batteria. Le melodie tornano a farsi maestose nella seconda metà del brano, poco prima dell’assolo, mentre la coppia di voci qui non lascia il segno come dovrebbe, limitandosi al semplice compitino ma senza crederci più di tanto. La successiva “Dream” vede il ritorno di Flavio come voce principale ed il passaggio ad un’atmosfera più cupa e maligna, quantomeno nella parte iniziale: con l’arrivo del ritornello, infatti, si torna a melodie più accattivanti e solari, mentre l’ottima digressione strumentale prepara la strada al finale e alla seguente “Change”, in cui si avverte più d’un omaggio ai Dream Theater. Le chitarre si fanno nervose e creano melodie avvolgenti sostenute da tastiere poliedriche, ma anche in questo caso è proprio la coppia di voci che non emoziona, risultando fin troppo sottotono e ancorando saldamente al terreno un pezzo dal grande potenziale. Peccato.
Un’aura inquietante aleggia su “Passage”, scandita da un riff granitico e lugubri tastiere. Con l’ingresso in scena della coppia di voci sembra che il brano debba incattivirsi e iniziare a pestare duro, ma alla fine tutto si riduce a un paio di brevi sfuriate batteristiche e poco altro: anche l’atmosfera sinistra si perde un po’ per strada, stemperata da una maggiore solennità nel ritornello e dal ritorno a melodie più convenzionali che sembrano fatte apposta per preparare la strada a “War”, la quale, a dispetto del titolo, è la ballatona dell’album. L’inizio è struggente e malinconico, con la voce di Olivia che si accompagna alle liquide note di un piano a sua volta sostenuto da una melodia di archi. Pian piano entrano in scena la batteria e le chitarre, che donano al tutto un po’ di brio (oltre a confezionare un assolo niente male) prima di un finale strumentale a mio avviso davvero intrigante.
Chiude l’album “Silence”, in cui il profumo di Nightwish si sente da chilometri di distanza: anche qui si ha la netta impressione che il brano debba incattivirsi da un momento all’altro senza che ciò accada mai realmente, ma se non altro il tono generale della canzone, pur mantenendosi su velocità nella media, è decisamente più propositivo rispetto al resto dell’album. Nonostante l’influenza di Holopainen&Co. che ne inficia un po’ il valore assoluto, “Silence” è un’ottima traccia e conclude con una bella zampata un album ottimamente suonato e prodotto, solido e compatto, ma il cui punto di forza è anche la peggiore debolezza. Pur mantenendosi su un buon livello per tutta la sua durata, infatti, “Signs” non rischia praticamente mai e non ha nessun vero picco qualitativo, nessuna canzone che svetti sulla massa; inoltre, la sua compattezza ed uniformità tendono a rendere le tracce troppo simili tra loro, rendendo difficile distinguerle e, di conseguenza, ricordarsele. Resta comunque un buon prodotto, ma credo che prima di acquistarlo sia doveroso un ascolto preliminare onde evitare di trovarsi per le mani il classico album che si ascolta per una settimana e poi via.