Recensione: Silence In The Snow
LA CRISI DEI TRENT’ENNI (?)
Black Album – Metallica – 1991- James Hetfield (29 anni)
Youthanasia – Megadeth- 1994 – Dave Mustaine (33 anni)
Divine Intervention – Slayer – 1994 – Jeff Hanneman (33 anni)
The Burning Red – Machine Head – 1999 – Robb Flynn (31 anni)
Stomp 442 – Anthrax – 1995 – Scott Ian (32 anni)
Force of Habit – Exodus – 1992 – Gary Holt (28 anni)
Il fattore cruciale che lega questi album di grandi band è il cambiamento, l’approccio differente, il tentativo di nuove soluzioni stilistiche al fine di ampliare/modellare/plasmare il sound della band precedentemente consolidato negli album diventati oggi dei classici. Chi più chi meno, ognuno degli album citati è ad oggi ricordato nella discografia di questi giganti come “diverso”, pensateci bene, altri cento potrebbero essere gli esempi ma poco importa ai fini della recensione. La cosa ancora più sconcertante è notare come, pur con qualche anno di differenza, i “pezzi grossi” di queste band nell’ anno di questo cosiddetto cambiamento avevano bene o male la stessa età: un caso o semplicemente la consapevolezza che quando si è intorno ai trent’anni qualcosa accade nella mente e nel corpo di una persona? Lasciamo da parte per il momento la crisi del metal mondiale degli anni novanta senza soffermarci su arcinote vicende legate ad un ipotetico grunge-influenced-metal. Non sono coincidenze queste, eviteremo di far intervenire Voyager per il momento ma, riflettendoci bene, un pensiero salta subito all’occhio…
IO DIVENTERÒ QUALCUNO
Matt Heafy, per quanto non possa essere considerato del calibro di ognuno dei soggetti sopracitati, così come la sua band, a 29 anni concepisce il settimo album della carriera dei Trivium, il famoso salto nel buio dove o la va o la spacca. Silence in The Snow è la conseguenza di un voluto, ragionato e desiderato cambio di rotta da parte non solo del leader ma dalla band stessa, cercando di afferrare quel desiderio, ampliare la proposta musicale, latente da troppi anni. La titletrack venne registrata già ai tempi di Shogun, il loro album più “tecnico” ad oggi, dopo aver assistito dal backstage ad un concerto degli Heaven & Hell in Giappone, riflettendo sul concetto della vita stessa e di quanto sia breve per non andare oltre le proprie paure. Registrata oramai sette anni addietro è rimasta in un cassetto sino ad oggi, anno nel quale per la prima volta nella loro breve ma intensa carriera i Trivium ci presentano il primo album completamente cantato in pulito, con sonorità ancora più melodiche e una produzione che favorisce il passaggio in radio di ogni singolo brano. Siamo a livelli maniacali, dove anche il più piccolo elemento è calibrato accuratamente, studiato ed indubbiamente concordato con la casa discografica; nemmeno la cover è stata riaffidata a Paul Romano (celebre artista delle loro prime copertine) portandoci in dote una misera tela bianca con la maschera del demone Ibaraki finalizzata in maniera discutibile da ogni grafico vivente. La volontà di andare oltre il classico preconcetto dei Trivium, perenne ostacolo sino a qualche anno addietro nella mentalità del classico metalhead, è lampante, lo è ancora di più quando si comprende come questi ragazzi vogliano a tutti i costi diventare “The Next Big Thing” riempiendo stadi ed arene, ma per fare questo serve la musica e ad oggi sembra proprio che…
QUALCOSA DI VECCHIO, QUALCOSA DI NUOVO, QUALCOSA DI PRESTATO
All’inizio erano considerati troppo qualcosa-core per i metallari, poi sono diventati troppo Metallica dipendenti, per trasformarsi infine in una band che segue troppo le mode del momento; oggi sono quel gruppo che per una volta ha seguito il proprio istinto realizzando l’album che avevano voglia di registrare da tempo, senza dare importanza ad eventuali becere aspettative da parte dei fans di mezzo mondo. Molte band infatti negli ultimi anni hanno realizzato album che tendono sempre più ad un affievolimento della pesantezza (Avenged Sevenfold su tutti) ma crediamo che oggi finalmente questi giovani statunitensi siano riusciti finalmente a trovare un loro sound, che può certamente assomigliare a qualcuno, risultando sempre personali fino al midollo anche nei più piccoli dettagli. Tutto ha inizio con la intro Snøfall, delicata e gentile composizione che Ihsahn ha realizzato ispirandosi alla cover dell’album, poco più di un minuto per catapultarsi a pieno nell’album vero e proprio. Se come già detto la titletrack è stata a cardine della radicale svolta sonora, è palese come il restante della tracklist sia andata a braccetto con tale composizione: melodie- riff semplici anche se mai banali- ritornello-strofa-ritornello-chiusura. Blind Leading the Blind, The Ghost That’s Hauting You, Pull Me From the Void sono tre dei brani che ricalcano al meglio tale struttura diventando ipotetici anthems sin dal primo ascolto; la orecchiabilità che superficialmente può apparire come scontata viene mano a mano a farsi da parte comprendendo minuto dopo minuto le potenzialità dei riff creati dalla coppia Heafy – Beaulieu, fautori di una discreta prova che mantiene intatta la personalità tipica della band. Quando arriva il momento di When the World Goes Cold c’è l’odore di gas degli accendini che illuminano all’unisono mentre il pubblico canta a squarciagola e alcuni si baceranno sotto i fari del locale dove la band sta suonando. Una canzone costruita alla perfezione per sfondare nelle radio con quella verve a-là Stone Sour che negli Stati Uniti ultimamente ha portato ottimi risultati sia in termini di vendite che di audience live. Stessa sorte tocca alla beve e corale The Thing That’s Killing Me, con il suo ritornello strappa-mutandine e quel mini assolo centrale del quale ancora oggi, dopo decine di ascolti, mi chiedo l’utilizzo. Arriva poi il turno del lentaccio vero e proprio, quella Beneath the Sun che ci porta in dono cinque minuti di piena epicità raffazzonata su: la canzone di per se non funziona meravigliosamente e cerca semplicemente di ricalcare le strutture dei brani più veloci per enfatizzare qualche passaggio senza ahimè lasciare un grande stupore. Chiudo parlando della Dead and Gone, una traccia che non meriterebbe di stare nelle prime posizioni della tracklist, non meriterebbe di stare dentro questo album, non meriterebbe nemmeno di essere composta: è il capomastro dei filler degli ultimi anni; la struttura che ricorda alla lontanissima gli ultimi Slipknot e fa venire un bruciore da orticaria che manco ve lo immaginate. Da censurare. Nell’edizione deluxe vi sono presenti due tracce supplementari che non fanno altro che allungare ulteriormente la durata del disco inutilmente senza aggiungere alcun dettaglio utile alla causa. La produzione è laccata palesemente, precisa, pulita al cristallino con quel retrogusto da top of the pops che non mostra niente di nuovo sotto il sole: mette in risalto la voce di Matt senza snaturare gli strumenti portando il disco a diventare piatto ed insapore al punto giusto. Manca il brano che ti fa dire “almeno questo è veramente bello”. Proprio la voce del leader è nel bene o nel male la pecca di Silence in the Snow, se non fosse per l’aiuto nelle backing vocals di Gregoletto ci sarebbe calma piatta assoluta; un registro monocorde che senza i growl e gli scream di un tempo assopisce l’ascoltatore sulla lunga distanza. Pare proprio che il nostro Heafy debba esercitarsi un po’ di più per riuscire ad arrivare al top, lasciando qualche punto interrogativo sulla perfetta riuscita della sua prestazione. L’intero disco è un’altalena tra il tentare nuove strade, prendere in prestito porzioni di brani di questo o quel disco famoso trito e ritrito cercando di far combaciare il tutto sotto il tipico sound Trivium cadendo facilmente nel ripetitivo a tout-court; messa sotto un’altra ottica il volere riciclare vecchi riff solitamente è un omaggio, qui invece diventa lievemente pretenzioso, senza però sconvolgere il fruitore medio più del dovuto.
SE ARRIVA IL SOLE?
Silence in the Snow è l’anatroccolo albino del gruppo, quello che non è peggio degli altri ma ha il difetto/pregio di essere unico nel suo genere all’interno della discografia degli statunitensi. Non segue nessuna scia lasciata dai precedenti album ed apre porte su sentieri nascosti in mezzo al candore della neve dove la purezza incontaminata diventa scintillante al sole. I problemi sorgono una volta che l’astro brilla nel cielo, scioglie la neve, scioglie il silenzio: ma di questo album che rimane giochi conclusi? Poco, molto poco amici miei perché non c’è una grande soddisfazione alla fine dell’intero album; l’unica salvezza dalla distruzione definitiva è la capacità tecnica dei membri di tenere in sesto un qualcosa che va leggermente oltre la semplice strutta strofa-ritornello-strofa-ritornello. Sufficiente, ma non più di sufficiente questo album sancisce definitivamente la parola fine sull’eventualità che i Trivium diventino in un futuro The Next Big Thing, i titoli dei dischi citati ad inizio recensione avevano, e hanno tutt’oggi, un peso nettamente differente, cosa che ahimè qui al momento pare mancare. Il futuro è dalla loro, seguire la strada intrapresa o fare retromarcia spetta solo a loro; solo il pubblico gli fornirà i mezzi per il definitivo salto di qualità accettando o meno la svolta, altrimenti questa neve ha le ore contate.