Recensione: Silver Horses

Di Fabio Vellata - 31 Maggio 2013 - 18:10
Silver Horses
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2012
Nazione:
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80

Una grande e storica voce. Un nucleo di artisti dotati di grandissima esperienza e protagonisti di innumerevoli collaborazioni. Tutti insieme, a comporre una suggestiva operazione in stile “all star band”.
Un range d’influenze che spazia da Led Zeppelin a Whitesnake, transitando per Aerosmith e Bad Company, in compagnia di suoni “d’epoca” che abbracciano il rock primigenio sporcato di blues e funky.

Sembrerebbe, vero? Eppure no…
Non stiamo parlando dei Black Country Communion, per quanto, lo stile ed il riferimento specifico ai canoni “settantiani” siano quanto meno affini.
E nemmeno dei Chickenfoot, gruppo estemporaneo che potrebbe tranquillamente rientrare nella descrizione fornita poc’anzi.

Detto con un briciolo d’orgoglio patrio, infatti, ecco materializzarsi una realtà inattesa che dimostra come anche in lande italiche esista ottima sensibilità per determinati stilemi radicati a ben altre latitudini.

Silver Horses, chi l’avrebbe mai detto.
A sentirli, si potrebbe giurare mille volte di essersi imbattuti in una notevole band britannica o a stelle e strisce, alle prese con un lavoro di riscoperta sonora d’indubitabile fascino e (confermiamolo senza remore) di discreto ritorno meramente commerciale, dati i tempi di rinnovato interesse per suoni derivanti da esperienze risalenti a quasi quarant’anni fa.
Ed invece i Silver Horses (moniker omaggio ai Badlands di Ray Gillen, già di per se indicativo) sono quasi totalmente un prodotto nostrano – fieramente “Made In Italy” – nobilitato e certificato nella sua bontà dalla presenza di un singer divenuto ormai italiano d’adozione, quel Tony Martin che in molti ricorderanno protagonista d’innumerevoli avventure con i Black Sabbath, ma pure in compagnia di Dario Mollo (sodalizio consolidato da anni) e Aldo Giuntini, in una serie di side project dalle costanti e fascinose influenze vintage.
Uno insomma, che non ha mai “speso” la propria voce in qualcosa che fosse meno che di “buona qualità”.

E di qualità, in Silver Horses – progetto animato da Gianluca Galli (chitarrista di Mantra e Time Machine), Andrea Castelli (basso ancora nei Mantra oltre che in Shabby Trick e Cappanera) e Matteo Bovini (drummer dei MRGB) – si direbbero essercene parecchie e ben evidenti.
Per quanto, tutte soggette ad una ben precisa e mirata raccomandazione che coincide, come di consueto, con gusti personali e modalità d’interpretazione legati al possibile apprezzamento di un’opera musicale.
Originalità, ovviamente zero. Novità o lampi di genio banditi. Di contro, passione infinita, virtù strumentali eccelse ed espressività dominante.
Se, insomma, per qualche strana ragione, l’idea di ascoltare qualcosa di già molte volte battuto nel corso della storia, dovesse risultarvi stretta e poco avvincente, il rischio di affrontare un percorso in salita nella valutazione di un album come il debut dei Cavalli Argentati, potrebbe rivelarsi a tratti concreto e quasi insormontabile.
Ma se, vinta la renitenza verso le sensazioni di deja vu, i sentimenti dovessero confluire verso un’innata attrazione per suoni nostalgici ed un po’ antichi, la scoperta diverrebbe suggestiva e ammantata di romantica piacevolezza, con la conseguenza di poter annoverare tra le fila degli album “ottimi”, anche questo interessante esordio tricolore.

Alla base, una necessaria propensione per i numi tutelari definiti in apertura, Led Zep e Snakes su tutti. Ed in second’ordine, la disponibilità a trascurare gli effetti retrò di un disco che sembra quasi una ristampa di una release edita nel 1972. Uno stratagemma voluto e consapevole, che porta a maturazione brani dal sapore certamente genuino quali “Run”, “Life And Soul” , “Diamond Sky” e “You’re Breaking My Heart”, episodi in cui gli echi zeppeliniani sono decisamente qualcosa in più di una semplice impressione passeggera e nei quali poter apprezzare – per l’ennesima volta in tanti anni – le doti interpretative di un singer che nulla ha da invidiare, per curriculum, tecnica e bravura, agli stessi – grandissimi – Page e Coverdale.

Ci sono poi grande conoscenza della “materia” (l’eccellente epoca rock seventies, inutile sottolinearlo) ed un profondo feeling funky blues ad innervare l’intera struttura di questo interessante debut, disco, come tutti i prodotti artisticamente degni, bisognoso di una discreta confidenza per essere apprezzato in modo definitivo.
Il meglio tuttavia, arriva in zone centrali: il trittico “Suddenly Lost”, “Me” e “Silver Horses” (il brano probabilmente più evocativo e meglio riuscito), dichiara con certezza il notevole valore di un’opera che cresce con gli ascolti magnetizzando l’attenzione su linee melodiche non certo immediate, eppure dotate di fascino sornione ed innegabile.
Particolare infine non certo secondario: nonostante un’evidente devozione per suoni ed atmosfere profondamente radicate entro canoni e direttive temporali specifiche, nessuno dei brani in scaletta è una cover “omaggio” al periodo o a qualche “maestro” riconosciuto.
Simbolicamente, un aspetto che dichiara con ulteriore fermezza l’evidente personalità del gruppo anglo-tricolore.

Come il vino di qualità, la prima opera dei Silver Horses necessita di tempo e cura, oltre ad un’adeguata contestualizzazione, per potersi esprimere appieno.
A qualcuno piacerà (o, data l’uscita non più recentissima, “sarà piaciuta”) sin da subito, ad altri saranno necessari ripetuti ascolti per ottenere la giusta sintonia.
Nondimeno, se Glenn Hughes, Whitesnake, Led Zeppelin, Bad Company, Free e Black Country Communion (musica con la proverbiale “M” maiuscola, insomma) ottengono da sempre i vostri consensi, l’ascolto approfondito di Silver Horses si rivelerà altrettanto essenziale, palesandosi come parimenti fascinoso e prodigo di buonissime e durature soddisfazioni.

Perderseli, sarebbe un peccato…

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