Recensione: Sin

Di Vito Ruta - 4 Maggio 2024 - 22:47
Sin
Band: Vandenberg
Etichetta: Mascot
Genere: Hard Rock 
Anno: 2023
Nazione:
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75

30 agosto 1990. Bologna. Arena Festa dell’Unità.
Dopo essere stati cotti da un sole che non lasciava scampo ed essere stati inzuppati sino al midollo da un tifone tropicale, utilizzato l’intero set dei Poison a guadagnare, tra gomitate e sotterfugi, posizioni, nel miraggio di occupare un posto sotto il palco (non era stata ancora inventata la zona pit ai concerti), con un amico determinato quanto me, ci ritroviamo sul far del tramonto, stravolti e increduli, a stringere la transenna della prima fila in attesa dei piatti forti del secondo Monster of Rock italiano.
Arrivano gli Aereosmith che, con una scaletta mozzafiato, ammazzano la serata vampirizzando gli oltre ventimila presenti di ogni energia e lasciando un pubblico assolutamente appagato in balia del main event: gli enormi Whitesneake di “Slip of the tongue” che sfoggiano il recente reclutamento di Steve Vai, determinato da un serio infortunio al polso del fido Adrian Vandenberg, motore inarrestabile del periodo più esaltante nella storia dei Whitesneake.

Il viaggio nei ricordi è scatenato dall’ascolto di “Sin” ultimo lavoro in studio del chitarrista olandese uscito nella seconda parte del 2023, che sembra ripartire esattamente dall’ottavo album in studio della band di Coverdale & soci.
Un doveroso recupero: dopo esserci sciroppati decine di uscite e gruppi ispirati dalle sonorità Whitesnake, quando non espressamente derivativi, Vandenberg ci propone con “Sin” quella che può essere considerata l’interpretazione autentica dello stile sonoro della band britannica.
Riff bollenti e pezzi che straboccano di passione, complice la voce del singer svedese Mats Levén (Candlemass, Yngwie Malmsteen, Krux, Therion).
Sin dalla solida apripista “Thunder and Lightning” e dalla seguente trascinante “House of fire”, Vandenberg e Levèn ci prendono per mano e ci portano a scoprire la magia dell’hard rock venato di blues.
Dopo la title track “Sin”, power ballad dal ritmo ipnotico che richiama l’andamento ipnotico di “Judgment Day” di “Slip of the tongue”, “Light it Up” offre una bella botta di adrenalina.
Walking On Water” e ancora di più “Burning Skies” lasciano, invece, riafforare i Rainbow e l’approccio vocale di Ronnie James Dio.

In “Hit The Ground Running” il refrain meno incisivo rispetto alle precedenti tracce è compensato da un grande solo di chitarra in cui Vandenberg innalza nel cielo le proprie note come guglie di una cattedrale gotica.
Lasciando da parte “Baby You’ve Changed” che nonostante tanto sentimento stenta a decollare, dopo un momento di disorientamento creato dall’arpeggio e dal canto etereo della parte introduttiva, “Out Of The Shadows” è il granitico congedo di un album, tutt’altro che piatto o scontato e nello stile adamantino del leggendario serpente bianco.

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