Recensione: Sing Along Songs For The Damned & Delirious
Mai avrei immaginato di imbattermi in una band – o meglio, in un disco – a cui l’etichetta “progressive” stesse alquanto stretta.
E’ il caso degli svedesi “Diablo Swing Orchestra”, al sottoscritto sconosciuti prima di questo “Sing Along Songs For The Damned & Delirious”, secondo album che ha scatenato curiosità e portato ventate d’aria fresca a tal punto da indurmi a ricercare spasmodicamente il debut, “The Butcher’s Ballroom”, suo predecessore.
Si diceva della difficile collocazione stilistica, anche se l’approccio di “Diablo Swing Orchestra” alla composizione non mi risulta del tutto nuovo. I nostri, infatti, attraversano svariati generi musicali, pescano a piene mani da tradizione e storia della musica contaminando un genere – il metal – in maniera grottesca, e dando a questo aspetto, la bizzarria appunto, il ruolo di protagonista accanto ad un altro “attore”, non meno importante e curato, ovvero il lirismo tagliente e sarcastico, avantgarde direbbe qualcuno (per la verità li definiscono così in molti), anche se sinceramente di avanguardismi qui non ne vedo molti.
Piuttosto vedo una proposta intelligente, sotto ogni punto di vista, che si guadagna l’insperata etichetta di “Metallo PeNsante”, coniata tempo fa da una nota e lungimirante etichetta italiana per descrivere un songwriting sopra le righe, estraneo alla banalità e ai luoghi comuni, indipendente dai cliché e assolutamente personale. E anche in questo i DSO ci stupiscono, con una cover artwork che contrasta decisamente con l’idea di “musica per bambini” a cui il “Metallo PeNsante” si contrapponeva.
Di Metallo parliamo, ovviamente, perché è evidente la matrice “heavy” dei brani, il filo conduttore che “vive” e sperimenta, quasi incuriosito, le contaminazioni swing, jazz, latino americane, folk, ambient, blues, e chi più ne ha più ne metta.
Naturalmente per districarsi in un tale groviglio di sonorità e mantenere comunque un’identità e un’omogeneità, è fondamentale la perizia tecnico-compositiva dei componenti del gruppo. Questa è assicurata dal fatto che abbiamo di fronte una vera e propria mini orchestra, formata da sei polistrumentisti che possono affiancare alla tradizionale sezione strumentale rock sezioni di archi e fiati in piena regola.
Venendo ai brani, dovremmo notare come ognuno di essi faccia storia a sé, e sia da intendere come una tappa in quel viaggio alla scoperta dei generi musicali di cui si diceva in precedenza: così “A Tapdancer’s Dilemma” apre le danze a mo’ di intro del varietà jazz/swing anni trenta, mentre le ritmiche cadenzate di “A Rancid Romance” e “Lucy Fears The Morning Star” ricordano scherzosamente scimmiottamenti popolari di balli classici come il tango o il valzer.
L’approccio, si diceva, è paragonabile ad esperimenti già apprezzati: l’ironia del “Combo De La Muerte” nel suo Tropical Steel è molto vicina, come pure sono vicini gli arrangiamenti a volte strampalati, folli, quasi fumettistici, dei Mechanical Poet, o ancora le dissonanze di certi Apocalyptica.
Certo è che per mettersi in luce in un panorama così affollato di uscite come quello hard’n’heavy, l’unica possibilità è giocarsi la carta della brillantezza: in questo i Diablo Swing Orchestra ottengono il miglior risultato possibile.
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Trackslist:
- A Tapdancer’s Dilemma
- A Rancid Romance
- Lucy Fears The Morning Star
- Bedlam Sticks
- New World Widows
- Siberian Love Affairs
- Vodka Inferno
- Memoirs Of A Roadkill
- Ricerca Dell’anima
- Stratosphere Serenade