Recensione: Sinister, or Treading the Darker Path
“Sinister, or Treading the Darker Path” è l’ultimo nato in casa della misteriosa compagine polacca nota ai più come Cultes des Ghoules, adorata e coccolata da legioni di fedeli discepoli e addetti ai lavori per la sua indubitabile verve, e arriva a distanza di due anni dal precedente, e piuttosto impegnativo, “Coven, or Evil Ways instead of Love”. Per chi non li conoscesse, i Cultes des Ghoules propongono un black metal istrionico e multiforme, che in questo caso specifico si traduce in un vero e proprio rito negromantico della durata di un’oretta scarsa. I nostri non si fanno mancare nulla, e dall’alto delle cinque tracce che compongono questo lavoro – e che vanno dai sette ai dodici minuti – si permettono il lusso di creare un’opera complessa e variegata che mi sento di descrivere come disturbante, sulfurea, maligna, sacrale. Nonostante le sfuriate tipiche del black più canonico e sferzante non manchino, è a mio avviso con le tracce più lente e serpeggianti, autentiche omelie riverse, che “Sinister, or Treading the Darker Path” concede al pubblico il suo profilo buono più sfavillante. La costante ricerca di atmosfere oscure, decadenti e malate è sicuramente una delle caratteristiche più interessanti dell’ermetico quartetto e si esplica in un lavoro profondamente emozionale fatto di ritmi ipnotici, ripetitivi, vagamente tribali su cui si adagiano languidamente riff dissonanti, riverberati e scomodi; un basso ragliante e a tratti fastidioso pulsa incessantemente all’altezza dello stomaco, senza cedere di un millimetro dinanzi alle improvvise sfuriate chitarristiche e alle evocative architetture dell’organo, per consentire alla voce sghemba e rituale che le sovrasta di impennare il senso di straniamento reverenziale che pervade buona parte dell’album.
Emblematica in questo senso la traccia di apertura, “Children of the Moon”: sette minuti e diciotto di lenta discesa nel sottosuolo per raggiungere la sede del sabba, una marcia funerea snervante sormontata da un crescendo oppressivo ed ipnotico e scandita dalle lamentazioni, ora isteriche ora declamatorie, di Marek. Con “The Woods of Power” sembra che le cose debbano proseguire sugli stessi binari, anche se fin da subito si avverte un maggiore peso specifico delle chitarre; grida lancinanti chiudono la prima parte della traccia, una sorta di ouverture dal retrogusto gotico, cedendo il posto alla classica sfuriata black fatta di riff gelidi e taglienti, non privi di una certa vena epicheggiante, che frustano senza pietà grazie al supporto di percussioni incessanti: anche qui la voce alterna rantoli sofferti e minacciosi a momenti più declamatori. L’atmosfera rituale del brano si carica di enfasi facendosi prima incalzante e quindi vorticosa salvo poi introdurre, poco prima del finale, una persistente nota che si potrebbe definire di solenne malvagità. La successiva “Day of Joy” parte agguerrita, snocciolando tempi insistenti sopra cui si rovesciano gli ululati di Marek. La canzone si sviluppa in modo irregolare, frastagliato, alternando i sospetti di un rallentamento qua a rapide accelerazioni là, ma sempre guardata a vista da un pervicace istinto che la rende la più canonicamente black del lotto. L’ultimo terzo del brano rallenta sensibilmente, tingendosi del doom più sofferto anche grazie a una voce lamentosa e straniante e al sapiente uso dell’organo per tessere melodie decadenti, anche se non posso fare a meno di considerare il finale troppo stucchevole. Per fortuna arriva l’imperiosa carica intimidatoria di “The Serenity of Nothingness” a scacciar via ogni rimostranza: tempi blandi su cui si distendono riff seghettati, pastosi ed insistenti marcati stretti da un basso che mai come qui reclama il suo spazio. Un’avanzata lenta e inesorabile, carica di ansie e paure, si mescola con la minacciosa aggressività di rapide accelerazioni, in una sorta di continuo inseguimento tra preda e cacciatore che di colpo cede il passo a una lunga digressione, dal profumo ipnotico, che si appropria della seconda parte della canzone screziandola con la sua atmosfera luciferina.
Chiude l’album “Where the Rainbow Ends”, che parte col cipiglio guerrafondaio e irruento di una classica frustata black, salvo poi staccarsi dai soliti canoni per un breve e destabilizzante intermezzo dal sapore di anni settanta; la bufera di riff torna quasi subito mentre Marek continua a salmodiare tetre maledizioni con voce ragliante. La seconda pausa arriva più o meno a metà brano, spezzandone la carica per incedere con un andamento più sottilmente minaccioso, introdotto da una sezione effettata che tanto profuma di horror movie e sviluppandosi poi su ritmi lenti, cadenzati, limacciosi ma al tempo stesso quasi solenni. Effetti sinistri ed un percussionismo sempre più impalpabile si impossessano del finale, chiudendo questo “Sinister, or Treading the Darker Path” con un’ultima nota di malevolenza e ponendo il sigillo a un lavoro notevole, sfaccettato e malsano, che pur mostrando il fianco qua e là a qualche breve scivolata si mantiene sopra la media delle uscite simili e conferma, qualora ce ne fosse stato bisogno, le qualità del quartetto polacco. Pollice alto, infine, per il perfetto equilibrio tra violenza sonora e passaggi più atmosferici e dilatati ma non per questo meno tenebrosi. Davvero niente male, gente.