Recensione: Six-Pack
Se fossimo a un award cinematografico in riferimento all’album Six-Pack dei Szabotage ci troveremmo ad ascoltare candidature e premi tipo quelli sottostanti.
Miglior band protagonista: creativi, secchi, contaminati, piacevoli, mirati, efficaci come lo sono le grandi band quando maturano e imparano a esserlo. Riescono a distinguersi e a fare la differenza nell’infinito universo delle band che si aggirano nel mondo underground con la capacità di creare un EP a propria immagine e somiglianza.
Miglior disco: un disco bellissimo, non avulso da influenze facilmente riconoscibili (Tool su tutti), con la capacità di catturare sin dal primo ascolto e di confermare, negli ascolti successivi, le sensazioni e le emozioni provate in origine. Un album dove l’orecchio potrà trovare un agevole cuscino sonoro su cui posarsi.
Miglior musicista non protagonista: i quattro amici non sono protagonisti assoluti o star universali nel mondo della musica, ma questo depone a favore del fatto che per fare le cose per bene non bisogna necessariamente esserlo. I quattro si muovono con abile maestria e intelligenza sfoggiando un disco di alto livello
Miglior regia: la “regia” del disco riesce, pur senza inventarsi novità assolute, a creare Six-Pack con gusto e spensieratezza attribuendo le parti giuste agli “attori” giusti e questo genera un lavoro dall’amalgama incredibile e assolutamente piacevole.
Miglior fotografia: il Covid ha devastato il mondo mettendo in crisi paradigmi e assetti che si pensava fossero ormai consolidati e inattaccabili, in questo clima (anche se la band è attiva dal 2020) quattro amici statunitensi si ritrovano per divertirsi e registrare solo un paio di brani da remoto. Il resto è storia recente di questi immaginari award, al posto dei due brani viene prodotto un EP molto interessante e da ascoltare assolutamente.
Migliori effetti speciali: i migliori effetti speciali, in questo specifico caso, sono i più semplici e si inseriscono nell’alveo della semplicità, della bellezza che si lega all’orecchio, di un genere non facilmente classificabile, di linee melodiche e musicali fortemente ispirate.
Statuetta spezzata: niente di catastrofico però; nonostante la lunghezza non sia propriamente dal EP, qualche altro brano aggiuntivo sarebbe stato gradito e accettato. A questo punto non resta che aspettare il prossimo lavoro dei Szabotage.
Uscendo dal perimetro di questo esercizio di stile bisogna ammettere che la carica emotiva di Six-Pack è invidiabile; a conferma di ciò basti ascoltare l’opener Mistakes Were Made che fa balzare subito dalla sedia.
Intro simil Tool e il wall of sound della band si fa subito apprezzare. James Phillips al microfono è un frontman espressivo e carismatico e nei tanti cambi di timbro e di impostazione è sempre lì a tener testa al brano così come il riff di chitarra di Victor Szabo si stamperà subito nella mente.
Le influenze citate dai nostri sono Black Sabbath, Faith No More, Anthrax, Tool e Opeth e onestamente gli elementi fondanti di queste band si ritrovano un po’ tutti, ma questo mix di nomi “grossi” non fa capire molto a un futuro e curioso ascoltatore.
La nostra visione? Si prendano quei maledetti ragazzacci dei Galactic Cowboys e li si rendano più infuriati (e leggermente un po’ meno ironici). Solo così ci si potrà avvicinare all’idea di partenza di questo Six-Pack. Il che è presto detto: per la poliedricità e soprattutto per la vasta gamma di sfumature (e di generi) davvero ben miscelate presenti in questo disco.
Da ricordare assolutamente Joyride, song di alto livello e con varie influenze degli ultimi Alice In Chains (da notare i chorus alla William Duvall degni di una hit mondiale).
Il quartetto è attento alle strutture simil pop senza dimenticare cuore e autenticità, in sostanza questa canzone crea dipendenza.
È tutto abilmente collocato: crescendo, stacchi, melodie chitarristiche in controcanto sul chorus…un piccolo gioiello insomma…
C’è spazio anche per del buon Jeff Waters sound in Sinn Féin, alcune parti dei verse ricordano (e qui fiumi di lacrime per i più nostalgici) performance tipiche di Dave Padden al microfono.
La sezione ritmica, a cura di Mike Dykeman al basso e Grant Moynes alla batteria, è solida e rocciosa, crea “genuina sporcizia sonora” in quello che è nato come un progetto a distanza.
Altra piccola gemma è la conclusiva Fremont, una track ispiratissima e piena di suggestioni sonore. Nulla è piazzato a caso, dai fill di tom ai chorus strappalacrime. L’intro di chitarra di Victor Szabo è tanto semplice quanto capace di poter reggere tutta l’architettura sonora che si presenterà da lì a seguire. Notevole lavoro per ispirazione e gusto, questo “pacco da sei” necessiterà di vari ascolti per poter essere metabolizzato in pieno e per poter scovare tutte le sfumature presenti.
Comunque ne varrà la pena, c’è un incredibile piccolo mondo da scoprire. Peccato, come già anticipato, che non abbiano disponibile una confezione da dodici…