Recensione: Skin and Bones
Quinto full-lenth in carriera per i tedeschi Lyriel, female-fronted gothic metal band di come se ne possono trovare a bizzeffe in giro, tanto che ormai quasi appena esci di casa se non fai attenzione rischi di inciampare in una band gothic. Si scherza, beninteso. Definiti dalla malignità di taluni “un brutto mix di Halestorm, Lacuna Coil e Korpiklaani”, debbono tuttavia proprio alle atmosfere folk di questi ultimi la propria peculiarità, atmosfere evocate dalla presenza (più o meno) costante in tutte le composizioni di violino e violoncello dei fratelli Laukamp: Joon e Linda – violoncellista forte della partecipazione in “India” (2005) degli Xandria. Sono proprio violino e violoncello, combinati assieme in un songwriting altrimenti molto classico, a contribuire efficacemente nel dare un apporto di personalità alla band, e nel fornire una valida raison d’être a questo “Skin and Bones”, successore del discreto “Leverage” (2012).
Cover bianca molto semplice ed asciutta, a mio gusto decisamente gradevole e professionale nel suo minimalismo… del resto il disco si chiama “pelle e ossa”.
Al primo singolo “Numbers” (il cui video è disponibile su youtube) è affidato il compito di introdurci al platter, e nella sua struttura possiamo rinvenire i tratti caratteristici della band, già citati in apertura. Archi, ritornello arioso, atmosfere dal folk al gothic evocato dalle tastiere.
La stessa titletrack “Skin and Bones” riprende i medesimi stilemi, con un riff senza fronzoli ed un ritornello di facile presa, che tuttavia tende ad annoiare durante gli ascolti successivi. La band c’è ed è carica, e ci conferma con la successiva “Black and White” il proprio notevole stato di forma. Presenti anche degli (immancabili, direi) inserti in growl maschile, incarnati nella voce di Christian Älvestam’s (ex-Scar Symmetry, Solution .45), in un’alternanza che ricorda da vicino le prime produzioni dei Lacuna Coil, complice la voce molto Scabbia-like di Jessica Thierjung.
Cambio di mood, verso un folk nostalgico ed elegiaco con la ballad “Days Had Just Begun”, che ci offre col suo arpeggio e col suo tempo quadrato e tedesco una ventata di trascinate malinconia. Non altrettanto riuscita l’altra ballad del platter: la romantica “Dream with a Dream”, pianoforte, archi e voce in cui subentrano diverse idee in maniera un po’ pretenziosa, un po’ come il titolo, onirica e leggera in apertura ed elettrica in chiusura.
Segnalo l’allegra “Dust to Dust”, che col suo refrain di violino ci accoglie come in una taverna calda e familiare mentre fuori impazza la tempesta. Molto riuscita, anche se su tutt’altro registro, la potente “Running in Our Blood”, con la quale iniziamo a porci qualche quesito… a che serve il riffing pesante se poi tutto il resto del pezzo è melodico e radiofonico come un comune brano rockeggiante degli Halestorm? Gli spettri delle similitudini fatte in apertura iniziano a prendere forma.
“Skin and Bones” è un album molto tedesco, immediato ma al contempo un po’ algido, con delle riuscite melodie rock e celtiche, valorizzate sia dall’ottima performance della band che da una produzione di buon livello. Ascoltare la voce di Jessica è davvero un piacere per l’udito. Un disco per certi versi maturo, non banale, onesto, tendenzialmente classico ma con qualche trovata moderna, capace di creare le giuste sensazioni senza voler strafare. Nelle sue atmosfere chiaroscurali emergono diversi pezzi di indubbia qualità che possono tranquillamente zittire i maligni, ma purtroppo non mancano alcuni fastidiosi filler in un album per certi versi fin troppo lungo e poco longevo, che ammalia con la stessa velocità con la quale poi rischia di stancare. I bei ricordi dei primi ascolti, però, restano in tutto il loro sapore dolceamaro. La mia impressione è che band come questa potrebbero tranquillamente affacciarsi ad altri mercati con maggior successo, piuttosto che puntare ad un settore di nicchia ed al contempo estremamente inflazionato come quello del gothic metal – perché spenti gli amp e i distorsori delle chitarre ed impoverita la sezione ritmica, le linee melodiche sarebbero egualmente evocative e consistenti.
Ma forse la chiave di lettura del disco è proprio questa. Sottrarre per aggiungere. Ridurre all’essenziale, all’osso, insomma – come suggerisce, in maniera neppure troppo velata, il titolo dell’album.
We are better when we drink
We’re much better when we don’t think
That is everything we’ve got
Running in our blood
Luca “Montsteen” Montini