Recensione: Slash
Once upon a time, the Guns ‘N Roses. Era il 1985, erano la manifestazione tangibile di ciò che s’annidava crescendo nell’animo di qualsiasi rocker, erano consumati dall’accanimento con cui azzannavano le beatitudini della vita d’artista, erano alienati in bilico perenne tra una dimensione autodistruttiva, una presenza scenica onnipresente e sregolatezze vissute in virtù di una vitalità musicale ormai divenuta storia. Accontentiamoci del racconto di un passato divenuto leggenda, tra scandali, carisma, concerti e favole, così ci vengono tramandati dai 110 milioni di dischi venduti, qualcuno così li ricorda, tutti si sono persuasi del fatto che così furono, e tali non torneranno.
Inutile spendere parole nell’osannare ulteriormente quanto di più clamorosamente autentico potevamo trovare in un trascorso ispirato e lontano. Oggi i cinque ragazzi, fagocitati dagli incantevoli e soavi scenari di un music business in grado di frantumare restituendo cenere delle sensazioni più genuine che ci ha fatto vivere la storia del rock, hanno preso strade diverse, percorsi che hanno portato noi ascoltatori a deliziarci attraverso la nuova proposta solista dell’arcinoto Saul Hudson, in arte Slash, intitolata minimalisticamente attraverso grande intuito creativo, ‘Slash’.
Trapela da ogni nota un’insistente sensazione di autocelebrazione, a cominciare da un artwork realizzato attraverso una fisionomia e una grafica mediocre e prevedibile: lustro al miglior cilindro di Hudson, riconosciuto marchio di fabbrica del chitarrista, oltre al reiterato costume di rappresentarsi attraverso un teschio, quasi una disamina delle proprie radici di musicista. La specularità tra la cover che ha imposto l’esistenza di Slash quale indimenticato chitarrista dei Guns ‘N Roses e il disco solista è quasi inevitabile, si mostrava allora la vera essenza che animava gli artisti, senza troppe gale, si ostenta ora un lavoro scialbo, superficiale e vuoto. Esattamente come il tentativo di rappresentare il prestigio di un tempo attraverso un’improbabile creatura in CG spalmata su uno scontato fondale paisley che non riesce a fungere da elemento integrante, non riuscendo a rendere l’idea di un lavoro unitario, ma mostrando una disomogeneità e una banalità che accompagnerà l’intera opera architettata da questa occasionale reunion Slash & Friends.
Regista di storie composite e discordanti incorporate in un amalgama di non semplice definizione, questo personale affresco alla ‘American Graffiti’ ci viene presentato da Slash attraverso l’intervento track-by-track dell’icona di turno, a cominciare dal duo Ian Astbury e Izzy Stradlin, il “Poker d’Assi”. Vincente è la combinazione tra i due artisti, il dual guitar sound di Izzy sempre sinonimo di garanzia e il timbro del leader dei The Cult che imprime una efficace personalità a ‘Ghost’, track di apertura. L’intervento celeste a suon di catchy riff ipnotici e ammiccati uniti ad assoli inconfondibili firmati Slash, unitamente ad un’ottima produzione, rendono il pezzo uno dei più riusciti dell’intero disco. Nonostante le partiture semplici e orecchiabili, non si dissolve la suggestione che frena l’intrinseco intento commerciale del pezzo, evitando che divenga un tedioso esercizio di monotona celebrità.
Ozzy Osbourne, “The Comedian”. ‘Crucify The Dead’ è il pezzo cui si dedica ‘The Madman’, brano che poteva ambire a una performance da ricordare e invece è un surrogato di ciò che poteva un tempo rappresentare ‘The Godfather of Heavy Metal’. Esattamente come il personaggio DC Comics The Comedian, conosciuto in Italia come Il Comico, passato alla storia per un passato caratterizzato da gloria e spietatezza, continuamente in bilico tra raziocinio e follia, questa nuova storia si apre con la sua fine.
Ora l’ombra di se stesso, al buon vecchio Ozzy viene concessa un litania dal ritmo placido e disteso, dominato da distorsioni alternate a riff che cullano l’ascoltatore in un universo costellato da riposanti momenti di quiete, accesi dall’unico rinvigorente intervento d’assolo dello stesso Slash.
Fergie, “La Sirena”. Inutile dirlo, le seduzioni rappresentate dagli input commerciali di programmi e chart a rotazione continua su Mtv e canali similari sembrano annebbiare col loro richiamo ammaliante anche il più inalterabile dei rockers. ‘Beautiful Dangerous’ ha come intento quello di attirare fra le proprie fallaci spire anche le più feroci belve da birreria, sostituendosi all’amato doppio malto con aperitivi consumati su divanetti zebrati. Voce graffiante, aggressiva, impetuosa, ma dal punto di vista compositivo nulla che si discosti dall’ordinario universo alternative commerciale presentato in questi ultimi anni da Top Of The Pops. L’unico autentico strumento sembra infatti essere rappresentato dalla chitarra del nostro Affezionatissimo, il resto si coagula attraverso una batteria perennemente scialba, un basso inesistente e un amalgama di effetti synth che farebbero impallidire Skin e compagni.
Myles Kennedy, Chris Cornell, Andrew Stockdale: “Los Tres Diferentes”. Prestati direttamente dal mondo dell’alternative rock, vantano background molto differenti, di cui non ritroviamo nemmeno la più flebile traccia in quella che dovrebbe essere l’esibizione delle loro forti identità, che risulta invece l’ennesima lezioncina bene eseguita incollando un insieme di cliché ritriti e occhieggiando compiacenti al Maestro Slash. Kennedy, il bluesman, il cantautore, la poliedrica figura d’artista, cresciuto tra fattorie, Led Zeppelin e il soul di Marvin Gaye, imprime la sua impronta su un pezzo scialbo in cui a fatica si respirano radici blues (‘Back From Cali’) in cui non si riesce nemmeno ad apprezzare l’intromissione dello stereotipato assolo di Hudson. Performance più godibile in ‘Starlight’ dove affiora l’anima del ragazzo diviso tra la malinconia del blues, il sentimentalismo country e la ballata pop smascherata da una ripresa d’emotività eccessivamente nostalgica. Ben congeniato il gioco di chitarre in crescendo fino all’ottimo assolo, che riesce a smorzare l’atmosfera affettata del pezzo.
Scontato il rock all’acqua di rose di Cornell (‘Promise’), partiture povere d’idee, nonostante il timbro allettante del ragazzo figlio del grunge, gli strumenti si adagiano su riff convenzionali, insipidi nonostante il tentativo di rendere la trovata uno stacco intrigante e avvincente, la ripresa spudoratamente commercial attitude lo rende un intervento sin troppo superfluo.
Invitante l’ espediente che ci presenta il visionario Stockdale in ‘By The Sword’, giro acustico eletto a leitmotiv di tutto il brano. Nonostante il tentativo di rendere insolita la performance del frontman, lo spessore compositivo rasenta il livello minimo, mentre il suo inconsueto timbro sembra astrarre il cantante in una dimensione avulsa dal contesto offerto dalle partiture. La sua voce, forzata in un quadro troppo prevedibile, svicola parallelamente alla trama strumentale, perdendosi in un tecnica che sovente risulta sgradevole.
Adam Levine, “Yorick The Fool”. Siamo di fronte all’autentico pezzo catartico dell’intero disco. Se finora avete resistito sfoggiando le vostre più autentiche convinzioni hard ‘n heavy, il vostro guardaroba strabordante pellame, jeans sdruciti e le gloriose bottiglie di Jack, non potrete fare a meno di ricalcare il famoso atto terzo, scena prima di Hamlet con in mano il teschio di Yorick il Buffone. Custodia del disco alla mano, guardate negli occhi la cover art (tempi moderni, accontentiamoci di un teschio in quadricromia) e cominciate il vostro monologo interiore chiedendovi ‘Perché!?’. Si, pausa di riflessione d’obbligo perché ‘Gotten’, pezzo ultrapiatto cui il cantante contribuisce solamente a rendere le linee di questo lento indefinibile similari all’intera produzione sedativa interpretata da Levine e i suoi quattro discepoli dei Maroon 5, è un pezzo tagliato alla perfezione per rappresentare la pesantezza dello smacco.
Lemmy Kilmister, “The Doctor”. Le chitarre sfrigolano, il basso stride, riprende la vita su ‘Doctor Alibi’ e l’effetto è quello di una sveglia prima dell’adunata. E’ la sensazione di un miraggio poter sentire la consueta grossolanità di Lemmy, tocco di classe che ristabilisce finalmente i ruoli di ciascuno, senza contare che le pelli di John Freese sembrano resuscitare e Slash sembra quasi aver ritrovato se stesso nella vertigine di un vero assolo. Signori, vi presento l’hard rock, convenevoli e dettagli vagamente sleaze a cura di Kilmister, uno dei pochi a non aver perso lo smalto e non aver dimenticato la polvere della strada, anche se aleggia ancora tutta l’atmosfera perbenista attraverso cui è stato confezionato il disco, basta tralasciare l’attacco e il refrain. Ogni sua corsa tuttavia è vincente come il nostro 46.
Dave Grohl & Duff Mckagan “The Wrath Of The Titans”. Lezione di puro stile regala il trittico a fondo dorato incarnato da queste tre icone, ‘Watch This’ si apre attraverso il turbamento della distorsione e il monito gridato in studio, ora ‘Guardate Questo’. Che la sfida abbia inizio, il pezzo si costruisce attraverso l’incontro-scontro del basso di Duff, le chitarre di Slash e la batteria di Dave, una competizione in perenne evoluzione che tuttavia funge da sostegno delle tre realtà leggendarie. I cambi di ritmo, tra inseguimenti, riprese, frenate e fughe si sprecano come il dialogo tra battute, ribattute, colpi di mano, sfide raccolte e provocate. Prima ed unica instrumental track del disco, è uno dei pochi ascolti godibili e ben sviluppati dell’intero lavoro; leggenda vuole che il brano prevedesse la voce di Grohl, fatto non avvenuto perché il ragazzo ha risposto con un semplice no, io suono la batteria. Pronta la risposta di Slash nel dire “All’inferno. Allora mettiamoci le chitarre!”, coronamento di un pezzo da ricordare.
Kid Rock “Il Rapper”. Lo sfrenato interprete de ‘La Dolce Vita’ made in USA diviso tra donne, pellicce, cappelli, sfavillanti catene dorate, riflettori e lustrini lo ritroviamo in ‘Hold On’ spogliato della sua congenita gangsta attitude, interprete di un pezzo che scorre senza essere graffiante. Compositivamente monotono, spizzica in più tradizioni, dal soul al southern, con l’intento di raffazzonare l’ennesimo polpettone commerciale rimescolando i soliti ingredienti, dimenticando clamorosamente che in ogni ricetta che si rispetti, la sapidità offerta da un artista è fondamentale. Proposta del tutto trascurabile.
M. Shadows “The Mannequin”. Sta diventando quasi un’arte l‘attitudine all’esteriorità mantenuta da individui particolari attenti al dettaglio, al look, impegnati nell’apparire in determinati contesti mettendosi un po’ in mostra. Ormai divenuta un’impresa distinguere questi ‘individui’ ricoperti di trucco nero, abiti neri, capigliature nere, ciuffi laccati, smaltini e borsalini shakerati assieme a piercing e tatuaggi sparsi un po’ ovunque. Matthew Shadows, arrivato direttamente dagli Avenged Sevenfold, si rende frontman del brano più heavy dell’intera produzione, ritmo sostenuto e chitarre soddisfacenti, ma il pezzo non da emozione. Sfogo dell’intento ‘di cassetta’ caratterizzante gli ampi panorami di un nu metal, che ormai viene elaborato e servito in tutte le salse immaginabili nonostante un attacco promettente, si stempera in un refrain d’effetto già sentito. Il primo pensiero balenato al chitarrista in fase di composizione è stato che Dave Mustaine sarebbe stato perfetto per il brano: oggettivamente, meglio non concedere troppe suggestioni o i deboli di cuore potrebbero risentirne. ‘Nothing To Say’, appunto.
Rocco DeLuca “ Il Cherubino”. Romantici di tutto il mondo, questa ballata acustica è dedicata a voi. In ‘Saint Is A Sinner Too’ riff acustici timidi e introversi si legano al falsetto dell’artista in un pezzo piacevole, trascendente e gradevole, nonostante il taglio poco originale crei costantemente la sensazione da brano ascolta e getta. Il fascino di questo pezzo intriso di romanticismo e moralismo inebriante fino all’attacco strumentale solenne in cui sembra d’assistere ad un trionfalismo fideistico e relativa conversione, non riesce tuttavia a coinvolgere del tutto, rimanendo uno dei tanti pezzi superflui della produzione.
Iggy Pop “The Factory Boy”. Un’epoca che non si riesce dimenticare e ciclicamente torna a fare sentire le proprie radici con prepotenza attraverso lo storico leader dei The Stooges, l’ammiratore di Morrison, l’amico di Bowie & Warhol, artista nel suo particolare universo di eccessi e genialità. All’Iguana il compito di spiegare che cosa sia il rock, un pezzo che non fa rimpiangere riff classic e innesti hard, l’assolo di Slash che abbraccia una buona performance dal camaleontico pezzo da novanta che non lascia delusi. Semmai l’ormai palese superficialità compositiva e la sterilità degli interventi strumentali, che non riescono a legarsi al vocalist di turno: Iggy Pop si comporta come ha sempre fatto, corre sulle note, le accompagna, le respinge e le semina precipitandosi alla ricerca della personale identità da conferire al pezzo, sempre col sorriso sulle labbra. Versatilità e sfaccettature di mille sfumature contenute in un unico raggio, un ‘ragazzo’ che avrebbe ancora molte lezioni da impartire, ‘We Are Gonna Die’ è uno di quei pezzi da cui nascono sensazioni old style reinterpretate in chiave moderna, senza essere eccessivamente amare.
Un red carpet i cui protagonisti si combattono i cinque minuti i gloria strumenti e microfoni alla mano, tra alti e bassi, tra nomi patinati e attitudine underground, tra riflettori ed estro artistico, tutti uniti dall’esibizione onnipresente e onnisciente di Hudson che non solo sa bazzicare tutti i generi chiamati in causa, ma se ne appropria in uno sfoggio di multiforme ingegno. Il disco tuttavia pecca di monotonia, stasi compositiva, verve troppo spesso inghiottita in favore di una compiacenza verso le grandi masse atte a collezionare il maggior numero di novità possibile, uno stile che si perde nell’eccessivo intento di risultare godibile a quanti più adepti possibile. Caleidoscopio di duttilità ma estremamente poco incisivo.
Lucia Cal
Discutine sul forum nel topic relativo
Tracklist:
01. Ghost (Ian Astbury)
02. Beautiful Dangerous (Fergie)
03. Nothing To Say (M. Shadows)
04. Crucify The Dead (Ozzy Osbourne)
05. Promise (Chris Cornell)
06. By The Sword (Andrew Stockdale)
07. Doctor Alibi (Lemmy Kilmister)
08. Saint Is A Sinner Too (Rocco De Luca)
09. Watch This (Dave Grohl/Duff McKagan)
10. I Hold On (Kid Rock)
11. Gotten (Adam Levine)
12. We’re All Gonna Die (Iggy Pop)
13. Starlight (Myles Kennedy)
14. Back From Calì (Myles Kennedy)