Recensione: Slaughter Of The Soul
A qualcuno la valutazione potrebbe sembrare eccessiva: il massimo del voto ad un album deve implicare molte cose, tra cui l’importanza del gruppo e del lavoro, la realizzazione e molti altri particolari. Ma non ho avuto dubbi riguardo al voto da assegnare a questo, e qui lo dico senza timori, capolavoro. Tra tutti gli album death metal che conosco, “Slaughter Of The Soul” non può che collocarsi tra i primi tre, e mi riesce difficile credere che nel loro genere ci sarà chi saprà superare gli At The Gates sfornando un CD migliore di questo.
La traccia d’apertura è affidata a “Blinded By Fear”, dopo una breve intro che, devo dire in tutta onestà, mi sembra azzeccatissima. Crea infatti un’atmosfera violenta e distaccata, che si addice al suono secco e “demolitore” della band svedese. Il pezzo vero e proprio parte come una mazzata in pieno viso: ad una batteria veloce e precisa, si accostano le chitarre, per dare vita a una canzone destinata ad entrare nella storia del metal. Il brano non stufa mai, anche per la durata non eccessiva, e unisce melodia e violenza allo stesso tempo senza nè risultare eccessivamente thrash (“errore” nel quale a mio avviso cadono molti dei presunti cloni degli At The Gates) nè ricopiare quanto già fatto dai gruppi di death-melodico che hanno invaso la svezia in quegli anni. Non abbiamo neanche il tempo di riprenderci da questo attacco frontale, che subito parte la title-track. Si inizia con un riff cattivissimo, seguito da uno stacco e da un “Go!” che diventerà quasi un simbolo (basti pensare che alcuni gruppi, tra cui i tedeschi Dew-Scented, hanno utilizzato la medesima scelta per alcune loro canzoni). Più ricercato in questo caso l’intreccio delle chitarre, che lavorano in contemporanea per dare origine ad un riffing compatto e senza cedimenti.
La terza canzone, “Cold”, è forse la più difficile da digerire dell’intero album, ma vi assicuro che nel momento in cui comincerete ad apprezzarla diventerà una delle vostre preferite. In questo caso gli ATG hanno preferito curare la sensazione che il brano doveva trasmettere piuttosto che la tecnica o la velocità. Tutto si abbina alla perfezione con il testo, tra i miei preferiti tra quelli della band. Eccezionale anche la prova vocale di Tomas Lindberg, che in questo brano da veramente il meglio di sè. E’ quindi la volta di “Under A Serpent Sun”. Il pezzo avanza senza grossissime sorprese, ma dopo un po’ di volte che l’ho ascoltato si è insinuata in me la sensatione che tutto tendesse alla fine del brano stesso: a un certo punto rimane solo un arpeggio di chitarra sul quale un pezzo alla volta si riallacciano tutti gli altri strumenti. Nella sua semplicità questo breve stacco riesce ad essere esaltante e ricercato. L’ennesima riprova del genio che sta dietro a tutto ciò.
Ci viene concesso per la prima volta una breve pausa in mezzo a tutto questo furore grazie all’intermezzo strumentale che è “Into The Dead Sky”. Poi via, si riparte subito con “Suicide Nation”. Se siete interessati, sul sito internet del gruppo potrete trovare la versione demo di questa canzone: dal confronto vedrete come il pezzo in fase di registrazione sia rimasto praticamente intoccato, salvo qualche particolare e la struttura all’inizio. Si passa quindi alla carica esplosiva di “World Of Lies”: il pezzo si distingue sia per la velocità che per il riffing massiccio, forse il più incisivo di tutto l’album. Infatti anche nelle parti mid-tempos il brano si distingue per la sua pesantezza, facendo affidamento sulla consistenza del lavoro delle chitarre. “Unto Others”, assieme alla penultima “Need”, sono i due pezzi su cui ho meno da dire. Si inseriscono alla perfezione nell’album, in quanto presentano in linea di massima le stesse caratteristiche delle altre canzoni (il che equivale a dire che sono due semi-capolavori) non riuscendo tuttavia a distinguersi per questo o quell’altro motivo. Spettacolare invece “Nausea”, contraddistinta da un riffing velocissimo e da una cattiveria che emerge fin dal primo ascolto, assieme a quella sensazione di oppressione che quest’album comunica così bene.
Traendo le conclusioni su quest’album, non posso dire altro se non che per me è sempre stato una sorta di unicum: uno di quegli avvenimenti che in un determinato contesto capitano raramente, e che sono destinati ad essere ricordati. Una serie di circostanze hanno fatto sì che in quest’album ogni cosa fosse al suo posto. Le migliori canzoni mai scritte dagli At The Gates sono state prodotte con il miglio suono a cui potessero aspirare per essere messe in risalto. Ho trovato molto intelligente la scelta di non voler prolungare eccessivamente la durata dell’album: le 11 tracce si consumano in poco più di 34 minuti, dando all’ascoltatore il tempo di godersele appieno ma di non risultarne stanco. Anzi, vi assicuro che terminato il cd tornerete subito ad ascoltarvi le vostre preferite. “Slaughter Of The Soul” a distanza di anni non vi annoierà, questo è certo. Significativo il fatto che il gruppo si sia sciolto dopo aver prodotto questo ultimo full-lenght, il primo che gli avesse reso giustizia. Una scelta coraggiosa, che non li ha fatti scadere, ma ha fatto sì che la memoria di questo gruppo passasse pura ed incontaminata. E ogni sera, prima di addormentarmi, prego che il miracolo si ripeta…
Matteo Bovio