Recensione: Slave to the Grind

Di Abbadon - 20 Maggio 2004 - 0:00
Slave to the Grind
Band: Skid Row
Etichetta:
Genere:
Anno: 1991
Nazione:
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84

A due anni di distanza dal bellissimo esordio, nel 1991 ritornano in gioco cinque fra i ragazzi più “wild” e di successo fra quelli emersi nell’esplosione dello street rock/glam rock della fine degli anni ottanta, gli Skid Row. E lo fanno con un disco, questo “Slave to the Grind”, che non viaggia certo su un manto di velluto, bensì su un vero e proprio rombo di cannone. Infatti Bach, Hill, “snake” Sabo, Affuso e Bolan riescono addirittura a piazzarsi subito, sull’onda di una popolarità che mai li aveva abbandonati dai tempi di “Skid Row” (e anche grazie alle due versioni rilasciate del disco), al numero uno delle billboards (cosa alla quale, alla fin fine la band ha sempre ambito), con conseguenti ottime vendite e gran giudizio da parte di tutti gli addetti ai lavori. Va rimarcato che musicalmente Slave to the Grind è piuttosto diverso dal suo predecessore, in quanto mostra, pur mantenendo la stessa energia e carica di base (se non superiore in alcuni punti), una violenza e un muro sonoro nettamente superiore, incattivito e diretto rispetto a Skid Row. Molti frangenti e riffs sono decisamente più vicini al metal che non all’hard rock, cosa che secondo molti rende Slave il più bel disco della band (cosa che non mi trova d’accordo), ma che rende questa fatica, permettetemi il commento personale, meno scanzonata e più paranoica di altre. La stessa ugola di Sebastian Bach, per quanto bella ed intoccabile, viene utilizzata in modo diverso da prima : se infatti eravamo stati abituati ad una timbro squillante e pulito, seppur fermo ed estremamente deciso adesso il tono, pur ritornando a queste caratteristiche ove necessario, è molto più grave e vibrante, un vero e proprio ruggito rabbioso. Ovviamente gli strumenti seguono a meraviglia queste impostazioni e non vi sono pecche da parte di nessuno, per dei risultati già sopra descritti. Le song sono veramente molte, ben dodici, e sono tutte piuttosto identificabili, anche se secondo me la varietà di temi proposti sull’esordio era superiore. L’attacco è apparentemente veemente, con l’intro a “Monkey Business”, veemenza che però viene subito spazzata via da un riffone granitico e da un urlo che dire cattivo è poco. Monkey, per quanto non la reputi una delle migliori tracce del disco, è sicuramente una di quelle eseguite meglio, causa l’abilità messa in mostra da una chitarra ritmica bellissima e da un cantato veramente difficile, in quanto Bach macina parole su parole senza mai confondersi minimamente, segno di un grande vocalist quale egli era davvero. Al punto giusto pure l’assolo, che spezza un po’ le sonorità ma non la pressione, e le backing vocals, precise e potenti. Assolo ancora più tremendo quello che presenta la titletrack, un vero tuffo nell’arroganza. “Slave to the Grind”, della quale tra l’altro è disponibile un eccellente video, è il brano che forse più di tutti fa notare le nuove linee vocali del singer, oltre ad essere una mazzata sonora a mio avviso superiore al già non tenero pezzo precedente. Peccato la lunghezza non smodata, che forse avrebbe reso ancora più affascinante la traccia, che viene seguita dalla cavalcata “The threat”, che si evidenzia soprattutto per il numeroso uso delle voci secondarie (molto buone fra l’altro), un bel riff che però forse alla lunga stanca, e un lungo e pirotecnicissimo assolo. Deciso il break che si ha fra le sonorità finora affrontate e la struggente “Quicksand  Jesus”, una delle mie  preferite del lotto. L’arpeggio iniziale è sublime ed emozionante, il timbro vocale torna ad essere quello dei (per me) migliori tempi, caldissimo e tuttavia molto esplicito. Bellissimo il solo di lead guitar, ma in generale tutto c’è per rendere Quicksand Jesus un vero e proprio classico del genere. E dopo questo bellissimo intermezzo un veloce basso ci riporta alla “normalità”, con la stridente “Psycho Love”, track che a mio avviso o piace o non piace, vista la sua particolarità. Per me è un più si che no. Sono infatti presenti numerose distorsioni, cambi di tempo e urla incredibili che impreziosiscono discretamente la song, ma il riff per come è concepito alla lunga annoia. Meglio la parte centrale, più acustica e pacata. E veniamo alle note dolenti, ovvero alla parte del disco che meno mi piace in assoluto. Questa etichetta di canzoni peggiori la accosto al trittico (tutte in successione, una fortuna per me visto che quando arrivano skippo tutto insieme in scioltezza) composto da “Beggars Day”, “Livin’ on a Chain Gang” e “Creepshow”. Le tre tracce non si assomigliano per nulla eppure mi causano sempre lo stesso, dannato, effetto, cioè lo skip (per quanto succeda magari solo a me, qui entrano in gioco emozioni personali). Perché non mi piacciono : “Beggars Day” perché ha un riff noioso e fra i più deboli dell’intero dell’album. Nel complesso sembra una versione di un pezzo Rock’n’roll vecchio stampo pompata al massimo e ciò non mi aggrada, ma tant’è. “Livin’ on a Chain Gang” è un mid tempo molto sonoro, ma secondo me anche abbastanza scontato, che viene in parte salvato da un discreto giro di chitarra e comunque da una capacità di trasmettere grinta che non posso negare. Affondo con “Creepshow”, veramente non la capisco, è suonata benissimo ma personalmente non mi trasmette nulla, e questo è piuttosto grave. Fortunatamente, dopo questo trio, arriva un pezzo di veramente altissimo livello, la eccellente “In a Darkened Room” che posso tranquillamente etichettare come uno dei pezzi più ispirati di sempre degli Skid Row. La pulizia strumentale di questo lento è impressionante, il sentimento trasmesso da ogni singola nota, chitarre in primis, è unico… non mi viene in mente null’altro, se non l’aggettivo capolavoro, quindi passo a “Riot Act”, anche questo uno dei pezzi più riusciti del platter, che risolleva ulteriormente la qualità del disco (malgrado la sua brevità). La ritmica è estremamente trascinante ed azzeccata, il riff è scanzonato seppur molto sonoro e ricorda tantissimo i primi anni ottanta. A me questo basta, e seppur non vi siano particolari alti in questo branbo, non vi sono nemmeno dei bassi, cosa che porta questa “pianura” su livelli davvero degni di migliori parole. il Cd si chiude nel migliore dei modi : se e vero che andiamo lievemente peggio del solito con la penultima “Mudkicker” mid tempo estremamente cattivo ma alla lunga un po’ banale, la qualità che sprigiona la closer “Wasted Time” è semplicemente gigantesca, degna erede delle varie “I remeber you” e “18 and life”. La canzone è magistrale in tutte le sue parti, sia negli arpeggi, sia nei tratti più possenti, che non fanno mai mancare la loro carica malinconica. Con questo ultimo capolavoro si chiude la seconda fatica degli Skid Row, che se è vero che obbiettivamente avrebbero potuto dare un po’ di più quanto a produzioni (i loro dischi non sono mica tanti) è altrettanto vero che non hanno quasi mai toppato. Slave to the Grind è la conferma di quanto ho appena detto e secondo me rimane il secondo miglior disco, dopo l’esordio, di tutta la carriera di Sabo e compagni. Questa riflessione la dò non solo, come scritto prima, a causa dell’alternanza qualitativa di alcune tracce qui presenti, ma perché ragionando bene non vedo una songs veloci al livello delle varie “Big Guns” e “Youth gone Wild”. Inoltre le stesse tracce che ho etichettato come migliori sono quelle che si avvicinano di più allo stile di “Skid Row”, quindi… Questo non è però, ovviamente, un motivo per accantonare Slave, anzi, sareste dei pazzi a farlo.


 

Riccardo “Abbadon” Mezzera


Tracklist :
1) Monkey Business
2) Slave to the Grind
3) The Threat
4) Quicksand Jesus
5) Psycho Love
6) Beggars Day
7) Livin’ on a Chain gang
8) Creepshow
9) In a Darkened Room
10) Riot Act
11) Mudkicker
12) Wasted Time

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