Recensione: Slaves of the World
A quattro anni dal precedente “Vermin” e a due da quel “In Sorte Diaboli” dei Dimmu Borgir che, per quanto tecnicamente ineccepibile, aveva fatto storcere il naso dei fan per una certa penuria di originalità in fase compositiva, tornano a farsi vivi gli Old Man’s Child. Tornati ad essere una one-man band con il precedente cd (con solo l’ausilio di un session man per la batteria, in questo caso Peter Wildoer dei Pestilence), tutte le responsabilità gravavano e gravano sulle spalle del chitarrista e polistrumentista Galder. Erano quindi forse leciti i timori di alcuni fan che questo “Slaves of the World” soffrisse degli stessi difetti di “In Sorte Diaboli” vista la permanenza del musicista in entrambi i gruppi.
Spazzando subito il campo da ipotesi, paure e aspettative, possiamo affermare, senza ombra di essere smentiti, che questo è l’album ispirato, potente, variegato, che ci si aspettava dai Dimmu Borgir.
“Slaves of the World” continua sul sentiero tracciato dal precedente “Vermin”, ma non si limita a battere la strada già esistente, la raffina e la migliora. La proposta musicale è, bene o male, sempre la stessa: black metal impreziosito da qualche rado passaggio di tastiera, mai invasivo, ma soprattutto valanghe di riff al vetriolo che pescano ora dal black, ora dal death svedese, ora dal thrash della bay area. Sopra a tutto questo, la sezione ritmica di Peter Wildoer dona maggiore spessore ai brani realizzando canzoni con molti cambi di tempo e anche qualche passaggio metricamente al limite del prog (ad esempio nella titletrack “Slaves of the World” posta in apertura del disco).
Benchè le influenze siano diverse e sfaccettate, però, il risultato finale è estremamente unitario e convincente, ogni song è perfettamente nello stile degli Old Man’s Child, risultando originale e personale, ma anche la somma di una serie di elementi estremamente diversi tra loro. I momenti in cui dai riff di chitarra sembrano poi emergere rimandi, più o meno diretti, agli Slayer, l’effetto è quello di un gustoso omaggio, invece di una sterile scopiazzatura.
Partiti da un black metal piuttosto scolastico, gli Old Man’s Child si sono evoluti, disco dopo disco, in una creatura sempre più interessante e sfaccettata, ma soprattutto sempre più originale. Sottovalutarli sarebbe un gravissimo errore, già ora sono una delle realtà più valide del movimento, ma in futuro, se dovessero continuare il cammino che hanno intrapreso da alcuni album a questa parte, potrebbero diventare uno dei principali nomi di riferimento del black.
Sotto il profilo della produzione non c’è molto da segnalare se non per degli elogi. Affidata nuovamente a Fredrik Nordstrom dei Fredman Studio (come per gli ultimi “In Defiance of Existence” e “Vermin”), colpisce nel segno facendo suonare l’album sempre carico, potente, ma a tratti anche oscuro e sottilmente inquietante.
Per concludere questo nuovo “Slaves of the World” è una piccola perla oscura che non dovrebbe mancare nelle case di ogni seguace della nera fiamma. Galder sembra compositore immune da qualsivoglia crisi creativa realizzando, uno dopo l’altro, album che innalzano sempre più il tiro. Per il futuro speriamo che porti un po’ di questa sua ispirazione anche nei Dimmu Borgir.
Tracklist:
01 Slaves of the World
02 Saviours of Doom
03 The Crimson Meadows
04 Unholy Foreign Crusade
05 Path of Destruction
06 The Spawn of Lost Creation
07 On the Devil’s Throne
08 Ferden Mot Fienden’s Land
09 Servants of Satan’s Monastery
Alex “Engash-Krul” Calvi
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