Recensione: Slavior
Il nome Mark Zonder vi dice qualcosa? Il batterista a stelle e strisce è in possesso di un curriculum vitae prestigioso; ha scritto un pezzo di storia con l’heavy metal dei Warlord negli anni ottanta e bissato i successi di quella band replicando con i famosi progsters Fates Warning nel periodo che ha inizio con Perfect Simmetry e che si conlude con X. Due generi distinti per due autentici monumenti della musica.
Slavior non ha nulla da spartire col passato di Zonder, dieci tracce che procedono spedite verso sentieri inesplorati, dieci brani che il pubblico europeo sarà restio ad assimilare a causa di quel sound filo-modernista (chi ha detto crossover?) che, presumibilmente, spopolerà negli Stati Uniti d’America.
Heavy rock lo chiamano loro, heavy rock lo chiameremo noi, tenendo ben presente che si tratta di un’etichetta da prendere con le classiche pinze.
La line up è un concentrato di artisti veri; siamo al cospetto di un trio che prevede Wayne Findlay (Michael Schenker Group) alle prese con chitarre e tastiere e l’eclettico Gregg Analla (Tribe Of Gypsies) al microfono, grandissimo protagonista. Entrambi a supporto della batteria di Mark.
Il disegno dei tre musicisti è pressoché definito sin dalle prime battute del brano Origin, perfetto per dare il via alle “danze progressiste” di un album legato in modo indissolubile ai suoni innovativi, quasi a partorire un genere che vuole riconoscere elementi a metà tra l’heavy rock classico e il nu metal futurista, esemplificandone il concetto nelle disarticolate e riformiste Shatter e Swept Away.
Anche il più convinto dei tradizionalisti non potrà non ammettere che, tralasciando l’aspetto del genere affrontato, siamo ascoltando un composto musicale perlomeno stuzzicante, eterogeneo, capace di impressionare col brano che non t’aspetti, Altar, sunto melodico di Slavior.
Creatività e qualità artistiche non mancano, Another Planet e Deeper sono efficaci espressioni del talento di Zonder (intervista), abile nel mischiare generi anti-complementari (vedi il reggae di Dove) riuscendo a mantenere una forte influenza rock, anima del disco.
Il percorso “dissociativo” si conclude conciliando strutture avanzate (Slavior), distorsioni all’ennesima potenza (Give It Up) e dinamismo progressivo (Red Road) poco prima di una imprevedibile ghost track tributo agli Indiani d’America.
Non è sempre facile espandere i proprio orizzonti ma Zonder ha voluto fortemente staccarsi dal suo passato evitando di ghettizzarsi in un genere musicale che non sentiva più suo, spaziando in un settore nel quale crede ciecamente e sul quale ha investito in tempo e denaro.
Un disco non fondamentale ma interessante testimonianza dell’evoluzione di un genere che prende le distanze da ogni tipo di stereotipo conservatore. Sostanzialmente si tratta di buona musica, il resto conta ben poco.
Gaetano Loffredo
Tracklist:
1.Origin
2.Shatter
3.Swept Away
4.Altar
5.Another Planet
6.Deeper
7.Dove (video)
8.Slavior
9.Give It Up
10.Red Road