Recensione: Sleep In Your Grave
Il 2005 per gli USA, che notoriamente sono un Paese estremamente creativo ma
anche produttore di trend (con un mercato interno enorme e una capacità di
promozione esterna anche più colossale), è stato l’anno del “metalcore”:
virgolette d’obbligo per un genere che in realtà scongela gli stilemi del
melodic death svedese, li mette in padella con una bella voce urlata in pieno
stile hardcore e ci aggiunge, per restare in metafora culinaria, una fortissima
spezia, l’immagine. Logico quindi il codazzo di caschetti con riga laterale,
polsiere e amenità simili a condire quello che, dietro la patinata
superficialità, è uno stile con spunti anche molto interessanti, per lo meno
nei suoi numi tutelari.
Al di là quindi di nomi grossi come Killswitch Engage, ottimi iniziatori del
genere, Hatebreed (molto più Pantera-core che altro), The Ocean et similia, la
scena in realtà è costituita da una miriade di band clone più o meno brave ad
imitare i propri idoli, e da mesi ormai la gara tra le label consiste
nell’accaparrarsi la più redditizia. Cinismo? Forse, ma più probabilmente puro
realismo, dato che i Manntis rientrano a pieno in questa descrizione.
Visti recentemente sui palchi italiani di spalla agli irrangiungibili The
Haunted ed ai God Forbid, i californiani in questione sono la tipica band con
tutti i requisiti da Ozzfest/MTV: ritmiche incalzanti, fraseggi melodici, voce
da vicolo puzzolente di periferia e grande attitudine live per i propri pezzi,
senza dimenticare l’iconografia basata su temi lugubri mutuati da certo gothic
(vedi il bucolico sepolcro posto in copertina).
La mezzoretta di Sleep In Your Grave è scandita da brani che
in realtà non aggiungono molto agli stilemi classici del genere, ma che
tentanto anche – va detto – di uscire dal solito binomio voce/chitarra, con
momenti trascinanti da puro mosh: vedi ad esempio la buona Weathered Soul,
con i suoi break ritmici ed il coinvolgente chorus finale, prima di una chiusura
a dir poco castrante. Ottima la prova del batterista Jimmie Sanders,
perfettamente a suo agio su ritmiche diversificate e non puramente fotocopiate
da altri. La dose di aggressività è assicurata, anche grazie all’ottima
produzione (da una grande label come la Century Media del resto sarebbe stupido
aspettarsi il contrario), così come la giusta alternanza potenza/melodia (New
Breed of Life ne è forse l’esempio più efficace). Si notano qua e là
anche dissonanze, usi sperimentali della chitarra che sarebbe stato giusto
sviluppare (come nella title-track), invece di perdersi in un mare di banalità.
Nessun pezzo emerge, solo frammenti, schegge di idee perse nel grigiore
generale.
Purtroppo la Century Media perde la gara di cui parlavo prima, in questo
caso: i Manntis, pur non sfigurando eccessivamente, non sono certo la
gallina dalle uova d’oro, se è vero che la musica conta più della potenza
promozionale. Un disco che può piacere agli amanti del genere, in attesa che il
vento cambi; ma che non aggiunge nulla a quanto già espresso, anche molto
meglio, da parecchi altri gruppi.
Alberto ‘Hellbound’ Fittarelli
Tracklist:
1. Axe Of Redemption
2. Shades Of Hatred
3. Approach
4. Reflections Of You
5. My Enemy
6. A New Breed Of Life
7. Second Life Ahead
8. Weathered Soul
9. Resist And Overcome
10. Sleep In Your Grave
11. The End’s Where It Begins