Recensione: Sleep’s Holy Mountain
Nel 1992, gli Sleep si ritrovarono ad essere un trio. Il loro secondo chitarrista Justin Marler li aveva lasciati per abbracciare la vita monastica. I restanti membri registrarono l’EP “Volume Two”, noto per la copertina presa da “Vol. 4” dei Black Sabbath, copertina e EP che lasciavano presagire un cambio di stile rispetto al loro debutto discografico che probabilmente risentiva ancora del periodo in cui il gruppo, o almeno la sua radice, si chiamava Asbestosdeath. Gli Sleep incisero allora il loro secondo album, “Sleep’s Holy Mountain”, e ne inviarono il demo alla Earache, che ne rimase tanto colpita da procedere immediatamente alla sottoscrizione del contratto e alla pubblicazione del disco senza ritocchi di alcun genere, come l’aveva ricevuto. Fu allora che gli Sleep divennero uno dei gruppi di punta del genere Stoner.
Ciò che a posteriori salta all’occhio di “Sleep’s Holy Mountain” è l’apparente mancanza di coesione tra i temi e, a volte, le sonorità delle diverse canzoni. La sci-fi si unisce al fantasy, veniamo trasportati nello spazio e poi sul fondo dell’oceano, ci sono riff veloci e martellanti e riff lenti e pieni, e tutto ciò che c’è in mezzo. A volte si respira quasi una violenta aria punk, lontana dalla coesa spiritualità del successivo e sofferto “Dopesmoker”. Solo la canzone “Holy Mountain”, con il suo ritmo trascinato e il testo dai temi sacri, benché legati alla fantascienza, caratteristica che in realtà non verrà abbandonata del tutto neanche in “Dopesmoker”, ci lascia intravedere il percorso futuro.
Una cosa che forse ha contribuito a decretare il successo degli Sleep, e che forse non si sarebbe manifestata tanto se queste non fossero, a tutti gli effetti, registrazioni per un demo, è la caratteristica degli strumenti a non coprirsi mai a vicenda: il basso di Al Cisneros, la chitarra di Matt Pike e la batteria di Chris Hakius sono ugualmente in evidenza e ugualmente importanti, risultando sempre alla pari, sempre secchi come il deserto.
La voce di Cisneros passa dal canto pulito e quasi atono, certo non profondo quanto quello che anni dopo avrebbe usato negli Om, all’urlo declamatorio, a sua volta diverso dal canto di gola di “Dopesmoker”, ci accompagna in queste visioni lontane tra loro nello spazio e nel tempo che si accalcano con violenza tra il fumo sulla cima della Montagna Sacra. Da qui si vedono delle carovane, vengono dal deserto e vengono dallo spazio profondo. Staranno andando verso Gerusalemme?
Man on the Mountain sets free the Holy Dove