Recensione: Slow Death

Di Daniele D'Adamo - 4 Agosto 2016 - 20:55
Slow Death
Band: Carnifex
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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84

Paura! Paura! Paura!

I Carnifex, con loro deathcore contaminato da molteplici virus diversi, fa letteralmente… paura! Paura per una potenza devastante, per una perfezione esecutiva aliena, per la terrificante, terremotante forza dei mostruosi breakdown di cui è, ovviamente, pieno “Slow Death”, sesto studio-album di una carriera cominciata nel 2005.

Ma, soprattutto, fa paura per l’agghiacciante mood, pregno d’inserimenti, in sottofondo, ambient; di campionamenti atti a configurare una musica assolutamente visionaria nonostante, alla fine, sia del fottuto deathcore. Cioè, teoricamente ancorato con i tasselli chimici ai cliché natii del genere.

Invece no, i Carnifex vanno oltre, sconfinando pur nel black metal, quando le linee vocali lacerano l’etere con il loro folle, allucinato screaming. Come in ‘Slow Death’, dall’incipit totalmente lisergico, che nelle sezioni al blast-beats fanno impallidire, per cattiveria, violenza e aggressività, molti act di black metal puro ricordando addirittura gli extraterresti, ma svizzeri, Darkspace.

Si tratta comunque solo di attimi, di sferzate improvvise: i cinque californiani non mollano mai la presa, sempre e comunque, da quello che è il genere il quale, in linea generale, li identifica definitivamente: deathcore! Peraltro, piuttosto ricco di melodia – certamente non quella del metalcore – sì da far venire in mente la definizione perfetta: melodic deathcore. Anche se song come per esempio ‘Pale Ghost’ sono delle autentiche, vere, micidiali mazzate sulla schiena. Bastonate sui denti. Lacerazioni della carne.

Potenza esasperata, stellare, sempre contenuta entro il suo nocciolo. Compressa, circoscritta, per poi improvvisamente essere lasciata libera. Specificamente, ma non solo, negli indescrivibili stop’n’go, di cui i Carnifex danno una lezione al Mondo interno su come eseguirli senza annoiare e spaccando all’inverosimile. Insegnando, pure, a sforare la barriera dei blast-beats mantenendo elevatissima la soglia energetica (‘Black Candles Burning’). E questo grazie all’accompagnamento o meglio il bombardamento di note eiettate dal basso di Fred Calderon; fornace nucleare da cui attingere dosi infinite di carica atomica.

Ma non solo: Scott Lewis e i suoi compagni devastano a tappeto anche quando in gioco ci sono i mid e gli up-tempo. Sempre avvolti dal sempiterno tappeto di tastiera che si dimostra il colpo di genio in un genere, il deathcore, a volte troppo metallico, troppo tagliente, troppo tagliato di netto con l’accetta.

Impossibile che il tedio faccia la sua comparsa: i dieci brani di “Slow Death” sono clamorosamente interessanti tutti. Sia presi singolarmente, sia apprezzati nel loro granitico insieme. Sfasci controllati come ‘Necrotoxic’ sono delizie, per coloro che amano le emozioni forti ma, anche, proiettare la propria mente altrove, grazie alla ridetta capacità visionaria che possiede il sound dei Carnifex. Non manca nemmeno la pausa, con la morbida, delicata strumentale ‘Life Fades to a Funeral’. Nemmeno a dirlo, l’attimo di respiro prima di affrontare le spaventose ‘Countess of the Crescent Moon’ (dal solo di chitarra da Campione) e ‘Servants to the Horde’, le due ultime tremende nerbate allo stomaco. Per la completa annichilazione.

Album grandioso, ensemble in grandissima forma!

Daniele D’Adamo

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