Recensione: Snow
Già prima della sua uscita, avvenuta nel 2002 per la Inside Out, questo Snow degli americani Spock’s Beard non era stato certo carente di elogi e paragoni illustri. Si pensi innanzitutto all’arduo compito di bissare i già ottimi album passati, “V” su tutti; si pensi alla sentenza di Mike Portnoy (batterista dei Dream Theater, nda), che aveva paragonato Snow all’epocale rock opera “Tommy” degli Who; si pensi a tutti coloro che lo avevano accostato anche a “The Lamb Lies Down On Broadway” dei Genesis. In effetti questo Snow è accomunato con le rock-opera precedentemente citate per il fatto che si tratta sempre di un concept, nei cui solchi si possono intravedere le influenze di molte band sempiterne quali gli stessi Genesis, ma anche Yes, Pink Floyd, etc.
La storia è quella di un albino dotato di particolari poteri e soprannominato Snow, che all’età di diciassette anni abbandona il suo luogo d’origine e si reca a New York. Qui dovrà convivere sia con la gioia di poter far felice tanta gente con i suoi poteri, sia con le difficoltà ed i problemi caratteristici dell’essere diverso.
Oltre alla mastodontica promozione, oltre agli illustri paragoni, oltre alla complessità dei testi, ed oltre al fatto che si tratta di un doppio cd per più di cento minuti di musica, c’è da dire anche che questo cd è l’ultimo che annovera fra le fila degli Spock’s Beard il cantante /chitarrista /tastierista /compositore-tuttofare Neal Morse, ritiratosi a vita spirituale.
Dopo un così illustre preambolo, la domanda è immediata: Snow ha mantenuto le promesse?
Dopo svariati ascolti mi sento di rispondere positivamente. Di certo non tutti i brani sono immediati, ma non sono pochi quelli che fanno centro al primo ascolto. Nel primo cd l’overture rappresenta immediatamente un perfetto magma sonoro di tutti gli spunti presenti sul concept. Lasciano subito il segno invece canzoni come Stranger in a strange land, dotata di una perfetta coesione fra voce e chitarra acustica, ma soprattutto di un ritornello molto orecchiabile. Interessante è anche l’evoluzione strumentale della canzone, che partita con un muro sonoro molto leggero (solo chitarra acustica e qualche percussione), risulta alla fine un’ottima mistura di tutti gli strumenti, con interessanti innesti anche da parte delle keyboards Ryo Okumoto. Oppure non potrete fare a meno di apprezzare la successiva Long time suffering, più graffiante, dotata di una maggiore complessità fin dal particolare inizio con il sintetizzatore, ma sempre e comunque dotata di una particolare orecchiabilità. Stesso discorso per la bellissima accoppiata I’m sick e Devil’s Got My Throat, fra i pezzi più aggressivi, ma comunque sempre melodici, dell’album. Una menzione particolare merita invece la conclusiva (di questo primo cd) Wind at my back, una ballad davvero bellissima in stile acustico. Se questi sono gli elementi forti fin dall’inizio, state certi che ad un ascolto più approfondito non resteranno incolori anche altre canzoni quali Welcome to NYC, Open wide the flood gates o Solitary Soul.
Per quanto riguarda il secondo cd, le danze sono aperte da un secondo overture, questa volta molto più duro ed energico del primo. Anche la seconda bellissima song, 4th of July incarna quella simbiosi perfetta di aggressività-melodia che contraddistingue molti passaggi di quest’album. Le due successive I’m the guy e Reflection sono invece molto meno immediate, ed ai più risulteranno probabilmente scarne ed incolori ad un primo superficiale ascolto. Ma come già ripetuto questo cd è, a mio giudizio, una vera opera d’arte, e come tale non si accontenta di una semplice passata sul lettore cd, ma merita attenzione e concentrazione nell’ascolto. Solo con queste ultime si possono riuscire ad apprezzare gli intricati passaggi blues di I’m the guy, e la stupenda melodia e gli armonici passaggi di piano di Reflection, canzone per niente scontata come può sembrare all’inizio. Carie è invece un vero e proprio diamante di musica e melodia, in cui la musica struggente e commovente è perfettamente al servizio del messaggio contenuto nelle lyrics, che trattano dell’innamoramento di Snow verso una ragazza chiamata appunto Carie. Sono sicuro che anche quelli tutto d’un pezzo si faranno toccare da questa canzone. La successiva Looking for answer, unica canzone scritta da tutto il gruppo insieme, è molto rock-oriented e melodica. Lo stesso discorso non si può invece fare per la super-graffiante Freak boy, rabbiosa e dura con chitarre molto distorte. La rabbia deriva dal netto e duro rifiuto della ragazza Carie nei confronti di Snow. Da qui in poi la musica risente pesantemente delle lyrics diventando più dura e struggente, più arrabbiata e potente. In All is vanity, per esempio, si può toccare con mano il lamento struggente e triste di Snow, in I’m dying la potente rabbia e stanchezza della vita con tutti i suoi problemi, associata sempre però alla richiesta di aiuto e mai ad un mero desiderio di suicidio. La positività degli Spock’s Beard è proprio quella di lasciare sempre aperta una porta, nella certezza che il destino di ognuno su questa terra si realizzi in un finale buono. La vita è sempre difficile, ma l’importante è non perderne lo scopo. Dopotutto sono anche queste le motivazioni che hanno spinto Neal Morse a dedicarsi anima e corpo al cristianesimo. Che la vita non sia tutta rose e fiori lo capiamo dalle successive Freak Boy Part 2 e Devil’s Got My Throat Revisited che riprendono con maggior rabbia due precedenti songs. Azzeccatissima invece l’accoppiata strumentale Snow’s night out e Ladies And Gentleman Mr. Ryo Okumoto, che danno respiro a tutta la storia.
Il finale è invece decisamente positivo, introdotto dalla melodia di I will go, il cui ritornello corale è davvero azzeccato, e Made a live again/ Wind at my back, che riprende le due omonime canzoni. Snow decide alla fine di aderire al suo destino, il cui fautore non è mai l’uomo ma Dio, il quale conosce ogni individuo e per esso ha preparato un precisa strada. Questa è la conversione, quasi una nuova vita per il protagonista Snow, che decide di accettare la sua strada e proseguirvi con fede.
In sintesi il lavoro degli Spock’s Beard è un vero e proprio capolavoro, suddiviso tra canzoni leggere e melodiose (“Carie”, “Solitary Soul”, “Wind at my back”), canzoni ricche di influenze blues (“I’m sick”, “NYC”, “I’m the guy”), ed episodi decisamente più rock e pesanti (“Devil’s got my throat”, “I’m dying”). Una vera e propria avventura musicale, dalla quale nessuno potrà rimanere indifferente. Un cd che può emozionare, incantare, far arrabbiare, far sperare, coinvolgere, sognare, commuovere.
Un capolavoro.
Fede “keeper-of-metal”