Recensione: Sôl austan, Mâni vestan

Di Luca Montini - 1 Giugno 2013 - 0:00
Sôl austan, Mâni vestan
Band: Burzum
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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66

“Questo concept album narra della discesa tra le tenebre e della successiva ascesa nella luce; dell’iniziazione pagana, l’elevazione dell’umano al divino, l’illuminazione della mente, l’alimentazione della luce elfica nell’uomo”.

Così parlò Varg Vikernes, riguardo la sua ultima opera. Lasciamoci dunque trasportare nei recessi crepuscolari di “Sôl austan, Mâni vestan” (“est del sole, ovest della luna” in norvegese antico), rimirando dapprima l’immagine in copertina ricca di phatos del “Ratto di Proserpina” (1888), opera del pittore spagnolo Ulpiano Checa.

Premessa storica. Come qualcuno ben più autorevole del sottoscritto ha fatto notare più volte in queste pagine: è assai difficile, se non impossibile, effettuare una cesura netta che possa distinguere il Kristian Larssøn Vikernes biografico dal Varg Vikernes artista, suo inscindibile alter-ego ed unica mente protagonista del progetto Burzum (“tenebre” dal linguaggio degli orchi in Tolkien), tra i più influenti e discussi personaggi nella storia del black metal. Questa dualità simbiotica tra l’artista eclettico e geniale, e l’uomo razzista, pagano-nazista ed assassino porta inevitabilmente ad instillare nell’ascoltatore giudizi e pregiudizi che si ripercuotono continuamente sulla valutazione dell’operato dell’ artista – alla luce dell’uomo in quanto tale.
Nel periodo che ha seguito la sua scarcerazione, avvenuta quattro anni fa, Varg Vikernes ha rilasciato un’ingente quantità di materiale. Il prolifico Burzum ha dapprima pubblicato un capolavoro solido e granitico come “Belus” (2010), interessante concept album, frutto delle idee maturate in carcere e rimaste fino ad allora inespresse. Il successivo “Fallen” (2011) seguiva a distanza ravvicinata e consolidava la buona qualità del progetto. Con “From the Depths of Darkness” (2011), riproposizione pedissequa dei primi due album “Burzum” (1992) e “Det Some En Gang Var” (1993) in una nuova veste, l’oscuro e temibile sentore di un’operazione commerciale volta a sfruttare al massimo il nome e la fama dell’artista iniziava a serpeggiare tra i fan. Qualche mese dopo “Umskiptar” (2012) ne darà la conferma, con un album ben confezionato ma decisamente al di sotto delle aspettative.

Sorprendendo il pubblico come è solito fare con le sue imprevedibili dichiarazioni ormai divenute a loro volta (s)oggetto di culto, con “Sôl austan, Mâni vestan” il Conte Grishnackh è tornato con un genere ben lontano dal black metal tradizionale. Trattasi infatti di un’opera dark ambient, elettronica, peraltro divenuta parte della colonna sonora del film “ForeBears” della moglie Marie Cachet, pellicola che vede protagonista lo stesso Varg in un improbabile ritorno all’origine delle tradizioni filosofiche e religiose.
Un disco ambient, alla stregua dei suoi “lavori del carcere” “Dauði Baldrs”(1997) e “Hliðskjálf” (1999), questi ultimi a loro volta anticipati da alcuni brani ambient negli album precedenti, come la profonda ed interminabile litania di “Rundgang um die transzendentale Säule der Singularität”, dall’album “Filosofem” (1996). I precedenti lavori si presentavano come un tentativo di sintesi necessario in un contesto carcerario coercitivo, avendo a disposizione la sola tastiera, in quanto opere di un giovane uomo rinchiuso nei suoi pensieri, composte nel momento della punizione per l’omicidio di Euronymous, annegate tra le letture di mitologia nordica. In quest’album invece la parabola emotiva si fa più rasserenata, sempre scandita e lineare, ma parimenti più matura.
A differenza del passato, in particolare da Hliðskjálf, il climax di questo disco è quasi rilassante, pacato, scandito a poco a poco, molto synth tra corde pizzicate, pianoforte ed effetti che si dipanano, lente e ritmate, nel tempo e nello spazio. Mancano le atmosfere cupe ed opprimenti dei diretti predecessori, assieme alle forzature medievaleggianti che li avevano distinti. Qui anche le tracce più tenebrose non sorprendono per straniamento e senso di oppressione come ci saremmo aspettati. Dalla discesa alle tenebre del passato, insomma, forse Burzum è in viaggio verso una qualche forma di luce serafica… pardon, elfica.
Rispetto ad altri lavori del genere ambient, ai quali peraltro il recensore ammette umilmente una certa estraneità, va segnalata una certa ripetitività e povertà del sound, tuttora come in passato molto naïf; ma forse in questo ne va recuperata l’identità, il marchio di fabbrica dell’artista, che autodefinisce in questo modo l’album: “relaxing, slow-paced, contemplative and very much original. You have not heard anything like this before, although we can compare it to other electronic music, such as Tangerine Dream – and I guess to old electronic Burzum music as well”. Ipse dixit.

Nella complementarità del sole e della luna, della luce e delle tenebre quest’album verrà recepito dal pubblico. Esclusi i detrattori a priori, anche chi si aspettava l’ennesimo album black metal rimarrà certamente deluso. Tuttavia questo disco consentirà al pubblico più “open-minded” qualche ora di viaggio tra la luna ed il sole, tra le aporie di un oscuro nichilismo, nell’ingenua complessità e nel mistero di una manciata di tracce – il cammino verso l’ascesi iniziatica del mistico. Consigliato decisamente a chi ha saputo apprezzare l’acerbo tentativo elettronico di Dauði Baldrs e Hliðskjálf, disposto ad ascoltare questo disco durante una sessione al PC, per creare la giusta atmosfera durante una partita tra i dadi del role play (magari del gioco ideato dallo stesso Burzum… alla fine l’ha rilasciato?), durante una lunga e meditativa riflessione filosofca notturna, in una stanza buia ed in completa solitudine in cerca di relax, oppure come accompagnamento musicale, magari sfogliando un buon libro.

Una cosa è certa: il Conte è riuscito a far parlare di nuovo di sé. Come ho scritto in apertura, è impossibile negare che nella valutazione complessiva del lavoro, che il pulpito sia quello della della critica o del pubblico, rientri anche solo parzialmente l’immagine del personaggio di Varg Vikernes, oltre l’artista e soprattutto oltre il lavoro dell’artista in analisi. Ivi compresa la valutazione in calce a questa recensione, in un tentativo claudicante di recuperare un senso ed un significato intrinseco dalla ricchezza e dalla povertà di un suono. Perché “Sôl austan, Mâni vestan” altro non è che l’ennesimo messaggio, stavolta impalpabile e non veicolato da parole (a parte una manciata di titoletti in norvegese), che giungerà al pubblico in molti modi, deviato e distorto in mille direzioni. Un messaggio umano, troppo umano, nella sua disarmante semplicità.

Luca “Montsteen” Montini

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