Recensione: Sol Invictus
Dagli acerbi (ma già interessantissimi) esordi con Chuck Mosley al microfono, passando per l’epoca d’oro che vide il geniale Mike Patton coesistere per qualche anno con l’altrettanto grande Jim Martin, fino al canto del cigno (consumatosi verso la metà degli anni ’90 con i più asciutti ma non per questo mediocri “King For A Day … Fool For A Lifetime” e “Album Of The Year”) i Faith No More non sono mai stati una band normale.
L’irruenza dell’hardcore punk si mescolava con atmosfere alternative e pulsioni funk, sfociando talora nei dintorni dell’hip hop. Un incredibile coacervo di suoni, stili e ispirazioni che con l’entrata in scena di Mike Patton nell’ormai lontano 1989 subì un ulteriore implementazione, inglobando quella lucida follia tipica del Genio di Eureka come un demone sotto la pelle.
Il suono si fece man mano sempre più elegante e rifinito, tanto che il divario tra “Introduce Yourself” e “The Real Thing” risultò – in questo senso – abissale, fino ad arrivare al fenomenale “Angel Dust”, apice della band ma (senza nemmeno troppo esagerare) anche del Rock tutto. Un album fresco, scorrevole, ispirato e innovativo con il marchio di fabbrica di tutti e cinque i componenti della band (già, cinque, perché non citare i mitici Billy Gould, Roddy Bottum e Mike Bordin sarebbe un’enorme ingiustizia) impresso a fuoco.
Lo split con Jim Martin, inizialmente sostituito da Trey Spruance e in seguito da Jon Hudson, avvenne nel bel mezzo delle registrazioni di “King For A Day … Fool For A Lifetime” e finì per rimescolare le carte in tavola modificando, e non di poco, il sound dei FNM, sbilanciandolo sul versante pattoniano. Le hit non mancavano, da “Get Out” a “Ricochet” fino alle isteriche “Cuckoo For Caca” e “The Gentle Art Of Making Enemies” passando per la favolosa “Evidence”, eppure rispetto ai due album precedenti “King” si fermò un gradino indietro.
Il 1997 fu, infine, l’anno che sancì la fine dello show, con il buon “Album Of The Year”, ancora capace di qualche notevolissimo colpo di coda (su tutte l’immortale “Ashes To Ashes”) e pur tuttavia gravato da un certo alone di malinconia, quello che si prova una volta giunti al termine di una bella fiaba.
Perché questo preambolo?
Per due motivi. Il primo: essendo il sottoscritto un fanatico dei Faith No More ma non avendo (ancora) avuto modo di scrivere una sola riga su di loro, la tentazione di poter contribuire a celebrarne le gesta è stata troppo forte per resistervi. Il secondo: un pur breve excursus nella Storia di questa fantastica band è assolutamente necessario per chiunque voglia approcciarsi all’ascolto del nuovo (e tutto sommato inatteso) parto della band di San Francisco e valutarne l’effettivo valore tenendo bene in conto di chi stiamo parlando.
“Sol Invictus”, successore di “Album Of the Year” a distanza di ben diciotto anni, riapre il discorso sostanzialmente laddove i FNM l’avevano interrotto nel 1997. Niente vocalizzi rappati, nessuna influenza hardcore, e un voltaggio globalmente più basso rispetto – per esempio – ai tempi di “King For A Day”; rimangono la maggiore eleganza e rifinitura degli ultimi lavori e rimane per fortuna, inalterata l’immensa classe di questi musicisti.
Accingendosi all’ascolto, la partenza è di quelle che lasciano il segno con la – volutamente – interlocutoria intro autointitolata ad alzare la tensione in attesa della deflagrante “Superhero”, un attacco all’arma bianca sostenuto da un groove di basso letteralmente devastante, quasi a voler rimarcare come il tiro dei tempi di “Caffeine” non sia rimasto in alcun modo intaccato dallo scorrere del tempo. Gran pezzo, degno di rivaleggiare con le hit degli anni d’oro, anche in virtù di un Mike Patton in eccellente forma vocale.
Con “Sunny Side Up” i Faith No More rinverdiscono la tradizione della ballate a metà tra il provocatorio e lo stralunato che contribuì a far grande gli album degli anni ’90 e il bersaglio può dirsi nuovamente centrato. La successiva “Separation Anxiety” è tesa e ossessiva, quasi a configurarsi come una sorta di outtake di “King For A Day”, ma è con le ottime “Cone Of Shame” e “Rise Of The Fall” che la qualità torna a salire a livelli vertiginosi, alternando sfuriate strumentali cupe e violente con intermezzi più melodici sottolineati da un percussionismo a mezza via tra il jazz, il funk e il reggae che rimanda in più d’un frangente ai Police.
Stramberie à gogo anche con la criptica “Black Friday”, a vagare errabonda in territori oscuri e non meglio identificati tra il country, il garage rock e l’alternative per poi accelerare improvvisamente il ritmo scandito dalla batteria di Mike Bordin grazie alle puntuali svisate di voce e chitarra che da una ventina d’anni a questa parte costituiscono il marchio distintivo degli statunitensi.
E che dire del trittico finale? “Motherfucker” è atipica, in calando e poi in crescendo, la canzone che forse nessun’altro avrebbe scelto come singolo, vista la sua particolarità ma – nel contempo – un brano che alla distanza si fa apprezzare in virtù di una linea vocale molto ricercata e di uno sviluppo assolutamente non banale. “Matador”, poi, è addirittura epica, con un Patton più che mai teatrale, splendidamente assecondato da un coté strumentale prima dolce e soffuso, e poi via via sempre più maestoso ed avvolgente. Con “Supehero” e “Cone Of Shame”, certamente l’apice qualitativo di “Sol Invictus”.
Chiude, infine e senza scossoni, la discreta “From the Dead”, ballata solare e freakettona che pur non facendo gridare al miracolo si rivela tutto sommato in linea con lo spirito mai troppo serioso dei Nostri.
Al tirar dell somme “Sol Invictus” si rivela un album ostico e per nulla semplice da decifrare.
Gli anni passano per tutti e la carica innovativa e dissacrante che fu il grande propulsore che proiettò i Faith No More nell’Empireo del Rock due decadi or sono non può certamente essere la medesima di allora. Al punto che quel sound che permise di annoverarli tra i prime mover di quello che poi sarebbe divenuto noto ai più come crossover e in seguito nu metal, oggi potrebbe essere definito “classico”, visti i rapporti temporali nel frattempo intercorsi.
Eppure, ciò nonostante Patton e compagnia sono riusciti a confezionare un album che, pur nello scontato e inevitabile riecheggiare di “antiche” sonorità e suggestioni, si configura come tutt’altro che banale o privo di spunti di interesse. Un album troppo frettolosamente etichettato da certa stampa sensazionalistica come molle, povero ed addirittura denigratorio nei confronti del glorioso passato della band e che si rivela, al contrario, in grado di rinverdine i fasti senza troppo scadere nell’autocelebrazione o in un revival patetico e privo dell’ispirazione dei tempi andati.
Stefano Burini