Recensione: Solace in Absurdity
Dall’Idaho piombano sulle collottole dei fan i Brutalism, formatisi nel 2020, con il loro tanto agognato full-length di debutto: “Solace in Absurdity“.
Trattasi di brutal death metal di quello bello tosto, alimentato, si può dire finalmente, da una formazione classica a cinque elementi; dato che è sempre più di moda giostrare su act composti da due o addirittura da un solo elemento. One-man band che, forse, sono più appropriate per interpretare il black metal invece che il death.
Tralasciando queste considerazioni aritmetiche, bisogna addentrarsi nei meandri carnosi dell’LP. Carnosi, sì, poiché il brutal, sfortunatamente per lui, presenta il difetto, almeno così lo interpreta lo scriba, di proporre tematiche e disegni di copertina tutti uguali fra loro. Macellazioni, cannibalismo, mutilazioni, stupri di cadaveri e torture varie sono iterati quasi all’infinito, generando, ovviamente, un po’ di noia. Quel sapore di trito e ritrito che sa di stantio, giusto per restare nel tema.
A questo approccio non scappano nemmeno i Nostri che, accanto ai soliti schizzi di vomito sanguinolento, associano un artwork che esula dal mostrare immagini degne di quel pazzo furioso del Marchese de Sade. A essere onesti nemmeno in questo caso si ha a che fare con qualcosa che buchi lo sguardo, ma almeno non si è scivolati sul marciume dei soliti cliché.
Per quanto riguarda l’aspetto meramente musicale, pare strano che, malgrado il supporto di una label sì underground ma specializzata come la Comatore Music, ciò che erutta dal disco sia un suono a dir poco dilettantesco. Soprattutto per quanto riguarda l’impatto del rullante della batteria, pari a quello di un fustino di detersivo vuoto. Un difetto, grave, che assilla non soltanto il quintetto statunitense ma anche altre parecchie realtà similari, rendendo addirittura penosamente ridicoli i blast-beats, giusto per fare un esempio calzante. Il che fa sorgere il dubbio che (l’orrenda) cosa sia voluta. Come un marchio di fabbrica, cioè, che attesti l’autenticità del brutal death metal (fortunatamente, la Storia del metallo dimostra che così non è).
Fuggendo da questo scomodo sospetto, i Brutalism ce la mettono tutta, per riuscire a mostrare qualcosa di loro. Si capisce con la cura con cui è stato sviscerato il loro marchio di fabbrica. Il livello tecnico non è certo da buttare via, soprattutto per l’intricatissima selva di riff che Jason Taylor e London Howell mettono giù per terra. Un riffing asfissiante, continuo, che rompe le reni a poco a poco trivellandole con un suono stra-compresso, tale da rendere quasi vivido il relativo, ipotetico dolore.
Allineato alla massa il cantato, se così si può definire. L’ihnale emesso dalla gola di Cameron Bass fa capolino da ogni angolo del platter, dandosi il cambio con un growling assai profondo. Nulla di originale ma almeno meno tedioso delle continue suinate che ammorbano le canzoni. Della batteria s’è detto, anche se occorre rilevare che Dante Haas esegue il suo compito con modestia, senza cioè voler esagerare nei tecnicismi, tenendo bene i ritmi saltellanti che spingono i brani verso la putredine. Il basso romba in sottofondo, nel vano tentativo di inspessire un sound piuttosto piatto e monocorde nel rispetto dei dettami di fabbrica.
Brani che, del resto, non fanno molto per differenziarsi gli uni dagli altri. Difficile tenere a mente qualcosa che ne valga la pena, in “Solace in Absurdity”. Se non altro, l’uniformità dell’approccio alla questione rende il tutto un macigno sostanzialmente impossibile da digerire, il che potrebbe essere un pregio, per i palati più allenati a questo tipo di musica.
Per tutto quanto espresso sopra, in linea generale ma non solo, il lavoro non ha nessuna possibilità di restare impresso nelle menti di chi ascolta. Se si vuole gustare del brutal death metal eseguito come si deve occorre scappare altrove, in definitiva. Peccato, poiché i ragazzi ce l’hanno messa tutta. E sulla passione, che al contrario si percepisce a pelle, non si scherza.
Daniele “dani66” D’Adamo