Recensione: Solitary Men
Sono passati quattro anni dal concerto “segreto” che vide la reunion di quella formazione storica dei Rage che produsse cinque dischi tra il 1988 (Perfect Man) e il 1993 (The Missing Link). Da allora Peavy, Manni e Chris hanno ripetuto l’esperienza in un paio di festival e hanno suonato, tra gli altri, anche tre show in Giappone.
Partiti per essere poco più che un diversivo, i Refuge si sono progressivamente trasformati in una realtà di sostanza, oggi confermata dall’uscita di Solitary Men, che mira a rendere l’esperienza non solo una riproposizione di ciò che fu, ma anche un’occasione ghiotta per fornire aria fresca alle setlist che verranno.
Prevedibilmente, qui tutto richiama i Rage, perché i Refuge sono i Rage. Date un’occhiata al logo della band, che ricalca quello della band madre. E poi riflettete sull’iconografia della copertina: tre rami di un albero, sì individuali (potremmo dire “solitari”), ma inscindibilmente legati da radici comuni, che sono proprio quel lustro che fu, tanto tempo fa.
Se la grafica non inganna, la musica non è da meno. La questione non è tanto se Solitary Men dei Refuge si scosti o meno dai Rage, quanto se esso sia o meno un buon disco dei Rage. Per fortuna, la risposta è positiva, perché Solitary Men riesce nel non ovvio compito di suonare fresco e convinto. Non ovvio, si diceva, proprio in quanto il rischio di scadere nell’effetto minestra riscaldata era pronto a rovinare la festa ai Refuge a ogni piè sospinto. La sensazione lasciata dal disco, invece, è che i tre ci credano davvero, condizione essenziale perché la musica possa scaturire fresca e suonare convincente: insomma, i Refuge paiono più il frutto di una fortunata circostanza volontaria che non di una strategia commerciale decisa a tavolino.
Venendo alla musica, appunto, il riff di Summer’s Winter, su cui si staglia la melodia della strofa che porta a un inconfondibile ritornellone power-Rage, racconta da solo l’intero Solitary Men: heavy metal da headbanging vorticoso farcito di tutti gli arrangiamenti che chiunque di noi ascolta da decenni, ma non per questo smette di amare. Segue The Man in the Ivory Tower, splendido pezzo figlio dell’esperienza dei tre musicisti, dove a una strofa con il freno tirato segue un ritornello semplice e di immediata presa, che in vero è meno banale di quanto sembri.
Ed è proprio la semplicità che non rima con ovvietà la cifra di Solitary Men. Prendete, ad esempio, Bleeding from Inside, che connette un riffing e una strofa che piacerebbero ai Metallica con un refrain che più Rage non si può: bella.
Con From the Ashes si torna a rovinarsi il collo tra groove sincopato e doppia cassa come piace a noi: dal vivo ci saranno orde di metallari delle più diverse età intenti a urlare il ritornello brandendo una birra o alzando un’altra volta al cielo l’amato segno delle corna.
Più cadenzata e vagamente teatrale è Living on the Edge of Time, che però sembra soffrire di una scrittura meno ispirata. Ce la mette tutta la successiva We Owe a Life to Death per risultare incisiva, ma riesce solo in parte nel proprio intento, soprattutto a causa di un ritornello piacevole, ma un po’ troppo leggero.
Per fortuna arriva Mind Over Matter, che trasuda metallo da tutte le note. Ancora è la melodia a farla da padrona, ma in un contesto decisamente più accattivante e convinto. Stesso discorso si può fare per Let Me Go, seppure quest’ultima denoti una qualità inferiore rispetto a Mind Over Matter.
Si stampiglia immediatamente in mente il ritornello di Hell Freeze Over, che gode di un bellissimo riffing e arrangiamento, segni positivi degli anni passati dai membri dei Refuge a scrivere e suonare pezzi metal.
Lunga e articolata è Waterfalls, che alterna una parte lenta a una più aggressiva. Molto anni novanta, il pezzo, pur sapientemente scritto, non incide più di tanto.
La bonus track Another Kind of Madness, infine, viene ingiustamente relegata a un ruolo secondario, quando invece si attesta come un pezzo decisamente buono, vario e accattivante.
Non possiamo non gioire all’ascolto di un disco come Solitary Men, che ci offre esattamente ciò che da esso ci aspetteremmo. In ciò sta la sua forza e, al contempo, il suo limite: avrete tra le mani un buon disco dei Rage che furono, niente di meno, ma anche niente di più. L’ascoltatore non può essere preso in contropiede, sapendo esattamente cosa attendersi dai Refuge, ai quali non si chiede altro che fare i Rage-Refuge e darci nuove (buone) occasioni per sudare sotto un palco e alzare il volume dello stereo mentre viaggeremo verso le spiagge e, un’altra volta, la nostra t-shirt nera consunta ci distinguerà dai colorati vacanzieri, che non sanno neppure chi sia Peavy Wagner. Ed è peggio per loro.