Recensione: Solitude
One man band australiana dedita a un personalissimo black metal con sfumature ambient da oltre un decennio, Striborg giunge alla pubblicazione di questo nuovo “Solitude” a neanche un anno dal precedente (sempre del 2007) “Ghostwoodlands”.
Autore di una nutrita discografia a base di demo (recentemente ristampati e allegati alle uscite discografiche) e collaborazioni a compilation varie, l’uomo che si cela dietro al monicker Striborg non rilascia interviste, non ha un sito internet ne altri sistemi per contattarlo. Lo stesso cd viene fornito dalla casa discografica senza uno straccio di biografia o accenno alla carriera discografica della band.
Al contempo, nonostante tutta la sua riservatezza (o misantropia), il nome Striborg è ben conosciuto nel sottobosco delle produzioni black indipendenti e in genere viene anche pronunciato con stima e venerazione. Considerato autore con la A maiuscola, ne viene esaltata la vena creativa, le atmosfere gelide e decadenti, la morbosità e l’atmosfera malsana e malvagia che le sue canzoni sono in grado di evocare.
Tutto questo, però, deve poi confrontarsi con l’ascolto del disco. E a quel punto sorgono gli interrogativi, tutti che ruotano, inesorabilmente, attorno alla produzione.
Registrato malissimo, con un noise così pesante da rendere tutto confuso e a tratti inascoltabile, con chitarre, basso e batteria pressoché indistinguibili l’uno dall’altro e la voce persa lì in mezzo, uno non può che domandarsi se si è perso qualcosa e cosa vi sentono gli altri. Di certo l’attitudine black (quella vera degli esordi del genere) c’è e l’ascolto, soprattutto se prolungato, di queste canzoni provoca un senso di malessere a causa dell’ossessività di certi rumori. Ma è in genere questo di cui si tratta: rumori.
La musica, se c’è, è ben nascosta dalla produzione volutamente grezza e cacofonica e qualcosa si riesce a percepire solo dopo ripetuti e ripetuti ascolti. Dare un voto a quest’album è alquanto difficile in quanto non è tanto la musica che viene valutata, ma l’effetto finale: disturbante, ossessivo, a tratti ipnotico, che l’ascolto del cd provoca sull’ascoltatore.
La sensazione è comunque che non si tratti di un caso. La registrazione, la produzione, i suoni confusi e indistinguibili, sembrano voluti proprio allo scopo di ottenere un certo sound e di conseguenza un determinato effetto sull’ascoltatore. Se così fosse ci troveremmo di fronte a un vero e proprio maestro capace di non esprimersi a note, ma a stati d’animo. Ai posteri l’ardua sentenza.
Striborg realizza il suo ennesimo, personalissimo, album. I suoi fan più incalliti saranno ben lieti di accoglierlo a braccia aperte. Per gli altri si tratta di un boccone molto difficile da digerire. Indubbiamente consigliato solo a chi cerca qualcosa di particolare e di nuovo.
Tracklist:
01 Ektoplasmic Dreams
02 Solitude
03 Pernicious Paths of Perception
04 The Untouched Land
05 Doppelganger
06 The Failure of Human Nature
07 The Grandeur of Melancholy
08 Homosapiens Devoid
Alex “Engash-Krul” Calvi