Recensione: Solveig
Se dovessi avanzare il nome di una giovanissima band con un debut uscito nel 2017 e che potrebbe dire qualcosa in futuro al mondo del metal, indubbiamente farei quello dei Seven Spires. Un quartetto formatosi a Boston dall’incontro fortuito in una libreria della cantante Adrien Cowan (che abbiamo già conosciuto nel progetto italiano Light&Shade e protagonista di un brano del prossimo disco dei Trick or Treat) e dal chitarrista Jack Kosto, entrambi studenti al Berklee College of Music, rispettivamente classe 1995 e 1996. Al duo, vero e proprio nucleo rovente e creativo, si aggiungono il bassista Peter Albert de Reyna ed il batterista (live) Chris Dovas. I ragazzi si sono dimostrati fin da subito molto propensi alla vita on the road, aprendo per band come Arch Enemy, Apocalyptica, Sonata Arctica, Fleshgod Apocalypse, Epica, The Agonist, Butcher Babies, Amaranthe, Kreator, Huntress e Carach Angren. Tutte band (peraltro molto eterogenee) alle quali il songwriting dei Seven Spires è in parte debitore. Uscito il 4 agosto scorso, recensisco con colpevole ritardo solo a fine anno questo primo full-length degli statunitensi, dal titolo “Solveig”,missato e masterizzato in Germania da Sasha Paeth e Miro Rodemberg.
Solveig è un disco di metal sinfonico scritto da menti giovani e molto ispirate, che non nasconde alcune ingenuità in fase compositiva ma che d’altro canto esalta e mette in luce il talento peculiare delle nuove generazioni, del tutto repellenti a facili etichettature e capaci di fondere in maniera originale influenze di vario genere. Il metal di questi millennials, nati con il download digitale e lo streaming ma anche influenzato dagli studi (musicali e scolastici) ancora in corso o appena conclusi, è quindi un coacervo di musica classica, colonne sonore cinematografiche, power metal, melodic death e black metal, con una strizzata d’occhio anche alla musica più commerciale. Il tutto in un concept album diviso in due atti: il primo, dalle tracce I a VII, coincidente con il primo EP “Cabaret of Dreams” (2014), ed il secondo, dalla VIII alla XV, composta da inediti ad eccezione del singolo “Stay” (2017). Il tutto per una durata complessiva di oltre un’ora di musica. La trama narra di un’anima perduta nel suo viaggio attraverso un oscuro mondo demoniaco neovittoriano.
Mattatrice dello show, già protagonista nella cover peraltro abbastanza anonima, la camaleontica Adrienne Cowan, con la sua voce versatile sia sulle parti in clean che nel growl, coadiuvata dagli assoli neoclassici del collega Jack Kosto. Come già scritto in apertura il disco è molto dinamico e riesce a spaziare come pochi da blast beat estremi e panorami oscuri alla Dimmu Borgir a passaggi sinfonici dolci e sereni, ed offre il meglio di sé a momenti alterni, come nella teatrale “The Cabaret of Dreams” che svetta in una prima sezione fin troppo lineare, per poi esplodere in episodi più aggressivi come in “The Paradox” o nell’articolata “Burn”, senza disdegnare i momenti più ariosi ed armoniosi di “Distant Lights” ed “Ashes”.
Al termine dell’ascolto di Solveig resta l’impressione che i ragazzi abbiano spinto forse anche troppo sulla varietà e sulla quantità, buttando tutto il materiale prodotto nel calderone piuttosto che soffermarsi su otto/nove brani più “killer” ed effettuando qualche taglio coraggioso. Ad esempio si sarebbe potuto evitare di inserire l’intero EP di debutto mescolando in maniera organica i brani senza filler, evitando così anche la sensazione di un disco spezzato in due parti. Anche l’estrema varietà non sempre paga, talvolta è meglio un brano più progressive con tante influenze piuttosto che tanti brevi brani che si escludono l’un l’altro e richiedono numerosi ascolti per essere assimilati tutti, senza lasciare mai il segno di una direzione artistica e musicale pienamente caratterizzata. D’altro canto, come si dice, “so’ggiovani”, ed è chiaro che gli stimoli creativi facciano fatica a trovare un punto di (auto)censura e contenimento.
Solveig è dunque un ascolto che consiglio agli appassionati di metal sinfonico che cercano qualcosa di imberbe ed originale: sia nella sua versione più power e leggera che in quella più estrema, si tratta di un lavoro che offre varietà e qualità, composto da giovanissimi che hanno tutte le carte in regola per reclamare il proprio ruolo nel mondo del metal che verrà.
Luca “Montsteen” Montini