Recensione: Some Kind Of Monster
I Metallica sono da sempre, oltre che un gruppo di fama mondiale e in generale una delle realtà in assoluto più celebrate dell’Heavy Metal, una band in grado di tracciare la via. E non ci riferiamo (o quantomeno non solo) alla questione puramente musicale, sul cui versante molti detrattori potrebbero certamente obiettare che ci siano stati altri n-mila artisti più o meno (s)conosciuti giunti magari un anno o due prima di loro a fare ciò che i ‘Tallica avrebbero reso semplicemente più appetibile e anche commerciabile.
Ci riferiamo, in questo particolare caso, alla capacità dei Quattro Cavalieri di San Francisco di creare dei veri e propri trend, sia artistici che commerciali, destinati a diventare dei nuovi standard il più delle volte celebrati e iper-imitati. Basti pensare alla sterzata melodica imposta al loro heavy/thrash nei primi anni ’90, poi clamorosamente seguita da molti altri illustri colleghi (Testament, Annihilator, Megadeth) o alla scelta, altrettanto imitata, di proporre più d’un album di cover di artisti cardine dell’heavy metal music. Nello stesso modo, dopo essere stati sommersi nel corso degli anni da una valanga di DVD Live, anche la scelta di proporre un opera “alternativa” come “Some Kind Of Monster”, può essere vista ed interpretata in quest’ottica.
Si tratta, a grandi linee, di un documentario girato quale testimonianza del momento difficile passato dai Metallica nei primi anni duemila, dopo la lunga pausa a seguito del controverso “Reload” e dopo l’abbandono di Jason Newsted. Una sorta di lungo resoconto di oltre un anno e mezzo di psicoterapia di gruppo sotto la guida del dr. Phil Towle, durante il quale la band ha dovuto fronteggiare la decisione da parte di James Hetfield di intraprendere un impegnativo percorso di disintossicazione dall’alcol e la conseguente sospensione dell’attività di scrittura, con prospettive per il futuro tutt’altro che rosee e definite.
Il racconto è molto lungo ed esteso, a tratti anche noioso, soprattutto nella riproposizione di alcune schermaglie da reality show tra James e Lars sulla cui genuinità ci sarebbe molto su cui discutere. D’altro canto il quadro complessivo che ne deriva presenta, nel contempo, non pochi spunti di interesse. Da un lato i Metallica al lavoro sotto la direzione di Bob Rock, produttore e per l’occasione anche “vice Fourth Forseman aggiunto”, nonché figura dai tratti, in più d’un occasione, addirittura paterni; dall’altro lato le star nella loro finta normalità in cui coesistono famiglie felici, ville extra-lusso, collezioni d’arte milionarie e improbabili (e censurabili) cacce all’orso in Siberia.
I momenti più interessanti, più che sul pathos di alcune sequenze di confronto tra i tre Cavalieri superstiti, convergono sulle fasi legate alla lavorazione dei vari brani, sulle jam session da cui le idee prendono vita o vengono scartate e sulla creazione dei titoli e dei testi, dimostrando come talvolta (come nell’ottima “Some Kind Of Monster”) certe cose nascano davvero per caso per poi trovare uno sviluppo inaspettato e finire su disco. Chi vi scrive non fa mistero di non aver mai amato particolarmente “St. Anger”, le sue canzoni lunghe e un po’ ripetitive, prive del mordente degli anni d’oro (ma anche di certe buone cose sentite sul discreto “Death Magnetic”) né i suoni utilizzati all’epoca per una registrazione che riuscisse nell’intento di tagliare i ponti con il passato. Tuttavia, gli aneddoti relativi alla nascita di alcuni riff e testi (e la costante presenza dei sottotitoli) aiutano ad apprezzare maggiormente alcune piccole finezze, anche a livello di liriche, che ascoltando semplicemente l’album rimangono in secondo piano rispetto a sonorità così anomale. Interessanti anche alcuni concetti espressi in varie occasioni da questi giganti dell’Heavy Metal riguardo all’”ansia da prestazione”, spauracchio da cui nemmeno star del loro calibro, dopo cinque album di livello elevatissimo e senza più nulla da dimostrare a nessuno, riescono ad essere immuni.
Degni di menzione anche il contributo degli ex Jason Newsted e Dave Mustaine, quest’ultimo a brutale colloquio con Lars dopo quasi vent’anni dalla sua cacciata e, altrettanto, il processo di selezione del nuovo bassista con cui i Metallica andarono a scegliere proprio Robert Trujillo in mezzo ad una schiera di bass player di grande caratura, tra i quali si intravedono Pepper Keenan, Scott Reeder ed Eric Avery. «Era l’unico che dava l’idea di non fare fatica a suonare i nostri pezzi; gli altri sembravano al 110% delle loro possibilità, mentre lui era a suo agio» disse all’epoca Lars, mentre James constatava con grande approvazione come l’apporto di Rob rendesse il loro sound «migliore».
Dal ritratto generale emerge, inoltre, il sostanziale bifrontismo della creatura Metallica, sempre e comunque dominata dalle due differenti personalità dei leader indiscussi, da un lato Hetfield con la sua smania di controllo totale e dall’altro Ulrich con il suo carattere da bad boy talora un po’arrogante. Inevitabilmente, da un tale scontro/confronto tra i due, la figura di Kirk Hammett esce indubbiamente ridimensionata, relegando il chitarrista a elemento più debole del trio, solo in rare occasioni in grado di alzare la voce e far valere le proprie ragioni.
Il secondo DVD è, come di consueto, riservato agli extra, dunque ad un buon numero di sequenze tagliate, talune gustose (come quella che riprende le fasi di creazione e registrazione di “We Did it Again”, buon pezzo di rap metal creato con la collaborazione di artisti della scena hip hop come Swizz Beatz e Ja Rule), altre piuttosto inutili (come quella che ritrae Kirk all’ufficio della motorizzazione civile) ma complessivamente divertenti. Tra di esse la più interessante è probabilmente quella in cui prende la parola uno dei manager storici dei Metallica, Cliff Burnstein, con la sua attenta analisi relativa alle motivazioni per cui un gruppo “arrivato”, sia dal punto di vista artistico che dal punto di vista economico, come i Metallica, voglia o meno continuare a mettersi in gioco, quando gli avvenimenti che hanno davvero cambiato le loro vite (come il successo planetario del “Black Album” e di “Master Of Puppets”) sono ormai alle spalle.
Un prodotto senza dubbio particolare, quindi, non scevro da difetti nè da qualche forzatura a livello narrativo ma, in ogni caso, interessante per i vari motivi eviscerati finora. La visione non è delle più semplici e in alcuni punti manca di scorrevolezza ma, come anticipato, sono per fortuna molti i momenti rilevanti e vi è anche il valore aggiunto dato dalla presenza di un gran numero di ospiti speciali e da alcune sequenze live estratte da concerti datati tra il 1988 e i primi duemila, fino allo show ICON, del quale i Metallica approfittarono per presentare il nuovo bassista. Dedicato ai fanatici dei Four Horsemen.
«These are the eyes that can’t see me
These are the hands that drop your trust
These are the boots that kick you ‘round
This is the tongue that speaks on the inside
These are the ears that ring with hate
This is the face that’ll never change
This is the fist that grinds you down
This is the voice of silence no more.
[…]
Some kind of monster
Some kind of monster
Some kind of monster
This monster lives!»
Stefano Burini
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Starring
James Hetfield, Lars Ulrich, Kirk Hammett
Also Starring
Bob Rock, Cliff Burnstein, Rob Trujillo, Jason Newsted (Echobrain, Voivod), Dave Mustaine (Megadeth)
Cameo
Danny Lohner (Nine Inch Nails), Twiggy Ramirez (Marilyn Manson), Pepper Keenan (Corrosion of Conformity), Scott Reeder (Kyuss), Chris Wyse (The Cult), Eric Avery (Jane’s Addiction), Swizz Beatz, Ja Rule
Regia
Joe Berlinger, Bruce Sinofski