Recensione: Something Wicked This Way Comes
Atto 4 scena 1: “By the pricking of my thumbs, something wicked this way comes”.
Così nel Macbeth, capolavoro di Shakespeare, una delle due streghe annunciava l’arrivo del male, individuandolo in Macbeth, un mostro che esse stesse avevano creato.
Questo concetto viene poi ripreso da Ray Bradbury nel 1962, quando pubblicava negli Stati Uniti un romanzo horror-distopico dal titolo “Something Wicked This Way Comes” tradotto in italiano con “Il popolo dell’ autunno” in cui immaginava, come teatro per il suo piccolo capolavoro della letteratura gotica, un “anonimo” centro dell’ Illinois, denominato Green Town.
L’opera che – se vogliamo – a livello di atmosfere, può essere definita una sorta di antesignano della serie televisiva “Twin Peaks”, vede protagonisti due ragazzetti poco più che adolescenti, tali James Nightshade e William Halloway. I quali vedono il concretizzarsi dei loro peggiori incubi, quando la quiete della piccola cittadina viene turbata dall’arrivo di una compagnia di fenomeni da baraccone, la “Dark Carnival”, che innalza le tende di un inquietante ed oscuro luna park. Un luogo prodigioso in grado di avverare di tutti i desideri e di garantire l’eterna giovinezza, ma che poi si rivelerà un mezzo per manipolare il tempo e… (insomma mi sembra imprescindibile la lettura del libro).
Ad ogni modo vi starete chiedendo la motivazione di questo (doveroso) preambolo su un sito che tratta musica metal.
Ebbene, i TEN, storica band hardrock inglese, avevano sicuramente in mente un bel po’ di letteratura quando hanno scelto il titolo: “Something Wicked This Way Comes” e ci hanno piazzato sulla copertina un teschio semi meccanico da cui scaturisce un grande orologio.
Il loro quindicesimo album concepito in lockdown, assieme a “Here be Monsters” (Marzo 2022), cita le origini, quando nel lontano 1996, Gary Hughes divise il disco d’esordio degli appena nati TEN in due: una parte fu X, seguita a poca distanza da The Name Of The Rose, due release ravvicinate dettate dalla grande quantità di materiale (ben 24 tracce) prodotte.
Anche se non c’è un vero e proprio fil rouge che colleghi questo album al precedente, si evidenzia una sempre grande coerenza stilistica e di impostazione che rende i TEN gradevoli da ascoltare e ben distinguibili. Come sempre spicca la voce di Hughes (dotata di incantevoli registri medi/bassi), posta sempre in primo piano insieme alla costante ricerca della particolare rifinitura che si concretizza nella scrittura e nel grande lavoro di armonizzazione.
Affermazioni che si possono riscontrare fin a partire dalla titletrack “Something Wicked This Way Comes” in cui sarà evidente come sia dato spazio alla voce di Hughes di vibrare, perfettamente affiancata dai cori di supporto e alle chitarre che fanno da perfetto collante, rimanendo sempre perfettamente aderenti alla ritmica, più che mai congeniale a incorniciare questo bel quadro.
Sicuramente le tematiche affrontate vertono sulla narrazione del particolare periodo storico e l’interrogazione circa il concetto di esistenza del “male”.
Dalla sneaky intro di “Look for the Rose” che è una rappresentazione delle paure del singolo individuo, con quella risatina malvagia, quel suono strisciante ed “umido” che fa pensare a qualcosa di losco e stregonesco, il gracchiare dei corvi e quella vocina nasale ispirata ad una profezia delle tre streghe di Macbeth che cita il distico di magia nera: “Double, double toil and trouble; fire burn, and cauldron bubble”. Una nenia in grado di insinuarsi nella testa e creare una certa tensione psichica, assieme a un’ insana eccitazione data dal trepidante senso di divertente aspettativa… cui però l’entrata a gamba tesa delle tastiere (Darrel Treece Birch) e la voce avvincente di Hughes che cattura e conquista, affianca l’idea di essersi immersi in una saga epica…
Fino a “Parabellum” “se vuoi la pace prepara la guerra”, la quale cita in intro la dichiarazione del primo ministro inglese Neville Chamberlain che dichiara guerra alla Germania il 3 Settembre, 1939 all’ inizio della II Guerra Mondiale.
Alla cui dichiarazione manca, però, la prima parte: “I am speaking to you from the Cabinet Room at 10, Downing Street”, ma anche un’ altra fondamentale, che fa riflettere ed è una grande sconfitta: “You can imagine what a bitter blow it is to me that all my long struggle to win peace has failed. Yet I cannot believe that there is anything more or anything different that I could have done and that would have been more successful”.
Qualche spezzone mischiato tratto dalla cronaca che trasmettono la notizia della recente invasione in Ucraina ed ecco un forte input, che però si converte in una canzone dai toni moderati, in maniera bizzarra tenui e sbiaditi, forse fin troppo e tali da ricordare i Reo Speedwagon, ma con cori coinvolgenti che non rischiano mai di sfociare in inefficienti polemiche di sorta.
La sensazione “distensiva” rimane permanente durante tutto l’ascolto e le canzoni ad alta intensità sono ben poche. Se è questo che cercate apprezzerete maggiormente tracce come: “The Tidal Wave” o “The Fire and The Rain” che sembra quasi una canzone d’ambiente in apertura… salvo poi aprirsi in qualche sana e forte schitarrata.
All’album hanno partecipato Dann Rosingana e Steve Grocott alle chitarre, Darrel Treece-Birch alle tastiere, Steve McKenna al basso, Markus Kullman alla batteria, Scott Hughes e Karen Fell ai cori e Dennis Ward al mixing e mastering, contando anche Gary Hughes alla voce. Però è incredibile come i TEN non siano dieci ma nove.
Sicuramente un album che piacerà ai fan consolidati della band, ma che merita una chance anche da parte di chi si avvicina a questo genere.
Per citare Bradbury: “conoscere veramente è bene. Non conoscere o rifiutarsi di farlo è male o amorale, almeno”.
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