Recensione: Songs Of Blood And Mire
Alle volte, dopo una giornata stancante e sfiancata pure dal torrido caldo di quest’estate 2024, hai bisogno di una cosa soltanto. Chiamiamolo il colpo di grazia, più comunemente noto come un buon disco black metal, magari la nuova fatica di un gruppo non proprio sotto i più grandi riflettori del palcoscenico, ma non per questo meritevole di essere ignorato. Stiamo parlando dei canadesi (Quebec, per essere precisi) Spectral Wound, i quali giungono al quarto capitolo di una discografia tanto giovane (hanno esordito nel 2015) quanto incredibilmente valida. Difatti, con il debutto Terra Nullius si era già intravisto qualcosa di notevole, ma è stato con i successivi Infernal Decadence e l’ancor più travolgente A Diabolic Thirst che i nostri hanno a tutti gli effetti guadagnato l’attenzione e il rispetto di chi scrive.
E non soltanto, dato che la Profound Lore Records ha rinnovato il proprio impegno, mettendo a disposizione una produzione in grado di esaltare un sound che riesce a ritagliarsi uno spazio tutto suo in un genere in cui il compito non è affatto semplice. Quindi, colpo di grazia o definitiva delizia, la prova del nuovo sforzo discografico intitolato Songs Of Blood And Mire è pronta a trascinare lungo l’occhio di una feroce tempesta. Già con l’opener Fevers And Suffering abbiamo ben chiare le premesse: gli Spectral Wound picchieranno come fabbri inferociti, il che non fa altro che aumentare l’acquolina in bocca. Un pezzo veloce, compatto, dannatamente idoneo in sede live e al quale proprio non interessa di tergiversare in chissà quali giri di presentazione. Per la serie, o aprite la porta o la buttiamo giù, con la differenza che in realtà gli SW l’hanno già sfondata a calci e doppia cassa.
Prendo dei riferimenti e trovo qualche pizzico di Watain, Carpathian Forest e abbastanza melodia da rendere l’album estremamente facile da assimilare anche ad un primo ascolto. Tocchiamo vette di songwriting mica da ridere con Aristocratic Suicidal Black Metal e chissà che non dia spunto per un nuovo ed ennesimo sottogenere, una sorta di Shining snob e con più bpm rispetto al solito? Scherziamo ovviamente, ma funziona davvero bene e con un piglio black ‘n roll ormai altrettanto impronta digitale della band al pari delle partenze in blast beat e di armonici che sorreggono una voce che trasuda odio e nichilismo dall’oltretomba, gli Spectral Wound restano fedeli a se stessi, spostando sensibilmente l’asticella ancora più in alto di quanto fatto sino ad ora. Niente male, anche grazie ad un inaspettato solo di chitarra con ripartenza da far crollare ogni preconcetto sul black metal per come molti lo intendono. Se qualcuno osa dire “sempliciotti” che si faccia da parte.
SoBaM fila via liscio come olio bollente colato in testa ai nemici. Sì, perché l’alone di violenza che permea l’album è costantemente sorretto da un’atmosfera sinistra e buia come le urla di Jonah che salgono dai più profondi antri del castello degli Spectral Wound. Una stanza spoglia, adornata soltanto di orpelli maligni e candele, come nella copertina, tanto old school da rievocare i fasti del genere, oggi in un 2024 dove anche il metal più estremo scende a patti con mode e tecnologia. Non stavolta per fortuna e quindi dopo aver tirato un attimo il fiato nella possente digressione di The Horn Marauding – perlomeno verso il suo epico epilogo – siamo di nuovo in sella a velocità più sostenute e che non disdegnano beat più ritmati (Less and Less Human, O Savage Spirit è un esempio lampante di come sia possibile diversificare strofe e ritornelli anche in un genere spesso volutamente chiuso attorno a se stesso) capaci di amplificare la profondità dei bassi premiati da un ascolto in cuffia, nel più religioso buio di una tarda notte solitaria.
Avvicinandoci alla chiusura non calano né l’attenzione né la qualità. A Coin Upon The Tongue è un ottimo preludio verso un brano ancora più grande e Twelve Moons In Heel – appunto – conclude in maniera egregia quello che non stento a giudicare come il lavoro migliore che gli Spectral abbiamo sfornato sino ad oggi. È incredibile come riesca a sorprendermi per la potenza e la carica che snocciola in ogni nota. Ed è altrettanto lodevole la varietà di quanto ascoltato negli scorsi 43 minuti circa. Il black metal non è mai stato così in forma e così ispirato e il fatto di avere per le mani un album di questo calibro dopo 9 anni di carriera – che non li categorizzano più nei novellini, ma nemmeno nei cosiddetti veterani – premia la scelta di aver tenuto il mirino puntato sul quintetto del Quebec. Fatelo anche voi, magari a cominciare da qui e proseguendo a ritroso nella ottima discografia.