Recensione: Songs Of Faint And Distortion
Capita abbastanza spesso che certe band dedite a uno dei più oltranzisti nonché ‘ignoranti’ dei generi metallici, cioè il grindcore, subiscano delle violente progressioni tecnico/artistiche tali da proiettarli, via via che avanza la carriera, ben oltre i confini della follia musicale.
Follia musicale che riguarda, essenzialmente, la permanenza nella grande famiglia del death metal, ma fortemente spostata in direzione dei suoi sottotipi ove il concetto di virtuosismo assume un significato normale se non scontato. Molto al di là, addirittura, degli invalicabili (teoricamente) territori del technical death metal e del djent.
Uno degli esempi più lampanti a sostegno di quest’osservazione risiede nell’anima dei piemontesi Psychofagist. Anche se, a onor di cronaca, già nel 2002 manifestavano, con il primo lavoro “Promotional Cd 2002”, un’innata propensione per l’azzardo stilistico e l’arzigogolo compositivo; lasciando intravedere un modo totalmente ‘scientifico’ di concepire la musica estrema. Così, dopo due full-length (“Psychofagist”, 2004; “Il Secondo Tragico”, 2009) e vari split, arriva il neonato “Songs Of Faint And Distortion” a sublimare i concetti di un’espressione sonora che trova pochi altri riscontri nel campo nazionale e non.
I tre musicisti di Novara fanno davvero paura, con gli strumenti in mano. Il livello della loro competenza è semplicemente esagerato, quasi impossibile a descriversi per via dell’estrema complicazione di tutto ciò che contribuisce alla realizzazione di un album. Gli accidenti musicali, le cacofonie, le dissonanze non sono che la norma di un sound ove nulla è lineare, nulla è scontato, nulla è inquadrabile in poligoni. Difficile, per esempio, trovare anche una minima sequenza di battute uniformi, nei pattern convulsi di Federico De Bernardi Di Valserra, persi nei meandri di una psiche morbosa, stordita dai turbinosi blast-beats che a volte piombano improvvisi come fulmini a ciel sereno. Lo scellerato screaming di Marcello Sarino, tributo ai manicomi psichiatrici ante legge 180, trafigge orizzontalmente gli infiniti picchi generati dal proprio basso per accoccolarsi sugli stridenti accordi della chitarra di Stefano Ferrian. Una chitarra che fugge ad anni-luce dall’aggettivo ‘gradevole’ e dalla sua numerosa accolita di sinonimi.
Nonostante tutto questo ‘grasso che cola’ in termini di abilità manuali e intellettuali, il risultato finale – cioè “Songs Of Faint And Distortion” – si rivela inaspettatamente privo sia di forma, sia di sostanza. La sensazione che predomina, nel susseguirsi degli ascolti, è quella che si sia esagerato nello stravolgimento dei ‘normali’ criteri fondatori delle canzoni, andando così a complicare definitivamente una proposta musicale che assume i contorni di un’astrusità se non fine a se stessa, sicuramente trappola di se stessa. I trentadue minuti di durata del disco sono pochi se paragonati alla media planetaria di un lavoro metal, troppi se l’obiettivo che ci si prefigge è quello di evitare la noia.
L’eccessiva osticità di un brano come “Song Of Faint” non può che far male, a parere di chi scrive, all’economia generale dell’opera; intrappolata in un gelido sudario le cui trame seguono un incomprensibile disegno. Come “Mechanoabsurdity” o “Inhuman 3.0”, del resto, paiono fatte apposta per allontanare radicalmente l’ascoltatore da “Songs Of Faint And Distortion”, incanalandolo sui binari di una faticosa se non dolorosa sofferenza da soffocante disarmonia.
Stavolta pare proprio che abbiamo ecceduto, gli Psychofagist, nel dare vita a una creatura sì astratta da essere impalpabile. Il metal è figlio del rock che, per definizione, fa dell’immediatezza – da decenni – uno dei propri punti di forza. Attraversare con tanta decisione il diaframma che separa la comprensibilità dall’inintelligibilità è un’operazione che, in questi contesti, porta a un’elevata probabilità d’insuccesso.
Daniele “dani66” D’Adamo
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