Recensione: Songs The Night Sings
Secondo album in tre anni di vita da parte dei finnici The Dark Element, sponsorizzati da Frontiers. Rispetto all’esordio omonimo (2017) c’è un avvicendamento dietro le pelli, non proprio un colpo al cuore del sound della band, visto che sostanzialmente siamo attestati sui 4/4 intramontabili e che, a dirla tutta, se si sostituisse il ping pong di cassa e rullante con un tunz-tunz di estrazione discotecara otterremmo suppergù una resa assai simile. Non è un mistero che i The Dark Element mirino un po’ a quell’effetto, non tanto essere un gruppo dance (non siamo oltre il “confine”, come con gli Amaranthe), ma rendere molto “danzabili” e orecchiabili le proprie partiture, facendo l’occhiolino a quello spaccato di universo power-gothic decisamente intrigato dal pop e dalle melodie. Jami Liimatainen (Sonata Arctica) è il gran cerimoniere, chitarrista e tastierista della band, coadiuvato dalla splendida Anette Olzon, sempre più lontana dall’odissea Nightwish. I due sono evidentemente al timone del gruppo se addirittura nei videoclip fatti circolare di “Not Your Monster” e della title track la coppia è l’unica ad apparire in scena, quasi a far pensare che The Dark Element sia un loro progetto e che il restante 50% della formazione siano meri gregari stipendiati, con alcun poter decisionale in merito al songwriting e alla direzione stilistica della band.
In relazione a quest’ultima, “Songs The Night Sings“, al di là del suggestivo titolo, prosegue esattamente il discorso intrapreso con “The Dark Element” due anni fa, da lì si riparte, stessa identica impronta (quindi soliti riferimenti alle rispettive band madri, oltre a Stratovarius, Epica e compagnia sympho-power). Ci sono tuttavia dei ma. Rispetto al debutto intanto scemano l’effetto sorpresa e quello curiosità. Che la Olzon sia una signora cantante oramai è assodato, quanto i The Dark Element siano o non siano portatori di influenze degli onnipresenti Nightwish è acclarato, dove vogliano andare a parare pure. Per tutti coloro che non ne possono più delle opulente architetture erette da Holopainen e soci, i The Dark Element si candidano ad una versione estremamente più semplificata di quel sound, un-due-tre via, riff immediati, ritornello sparato 200 volte, ritmiche elementari, tastiere ad impreziosire. Una ricetta lineare, trasparente, zuccherosa, semplice semplice, per chi non ha smanie da grande chef in cucina. E però il songwriting di “The Dark Element” metteva molti più punti a segno, forte di un buon lotto di canzoni, assai più convincenti di quelle “di maniera” contenute in questo secondo episodio discografico. Fatte salve le due citate a proposito dei videoiclip (per altro poste in sequenza ad aprire l’album) e la discreta “If I Had A Heart“, la scaletta di “Songs The Night Sings” si rivela a conti fatti sin troppo banale e prevedibile. Ottima produzione, suoni potenti e cristallini, la Olzon che nobiliterebbe qualsiasi band con la sua interpretazione, ma il disco latita di anima vera, di profondità, di una serie di pezzi vittoriosi. E’ esattamente ciò che ci si aspetta da un album del genere, ma al minimo sindacale, ci sono le atmosfere, manca l’ispirazione.
Personalmente mi aspettavo di più, una progressione, non uno stallo o peggio, una regressione. Vuoi perché “The Dark Element” mi era discretamente piaciucchiato, vuoi perché ho un debole per la Olzon, in credito verso il destino. La sua defenestrazione dai Nightwish ha avuto del grottesco. Ottima cantante ma del tutto inadeguata a prendere il posto di una Tarja Turunen (e se lo sapevamo noi, lo sapeva pure Ego-painen), Anette è stata carne da macello, agnello sacrificale propedeutico all’arrivo della valchiria olandese Floor Jansen, certamente più affine alla vocalità della diva Turunen. La Olzon dapprima ci ha provato come solista, poi si è accasata al microfono dei The Dark Element e la possibilità di una nuova ripartenza si era fatta concreta. Peccato per questo secondo album, che arriva già a raffreddare un po’ troppo gli entusiasmi. Un lavoro interlocutorio e poco rilevante, che lascia l’interrogativo di cosa faranno da grandi i finnici, al momento di licenziare quello che solitamente viene considerato il disco della maturità, il terzo. Chi vivrà vedrà.
Marco Tripodi