Recensione: Sonic Temple [30th Anniversary]
I The Cult festeggiano in modo sontuoso il trentesimo anniversario di Sonic Temple (uscito nel lontano 13 settembre 1989) con un mastodontico box set con tre vinili, stage pass, cassette, registrazioni live ed inediti; oltre a memorabilia varia. La versione che andremo ad analizzare è il cofanetto con cinque CD, che contiene tutto il materiale di cui sopra in formato digitale. Però, prima di addentrarci nello specifico, bisogna fare un passo indietro e tornare a metà anni Ottanta, quando la band capitanata dal duo Ian Astbury e Billy Duffy decide di abbandonare le sonorità goth dark wave per abbracciare un sound hard rock più sanguigno, grazie alla collaborazione con il guru della consolle Rick Rubin, per il loro terzo album Electric del 1987. Un disco coraggioso pieno di riff alla AC/DC che, di fatto, li allontanava da un mondo cui avevano contribuito a decretare il successo solo due anni prima con Love, ma che al tempo stesso faceva guadagnare loro una nuova fetta di pubblico dedita a sonorità più pesanti. La band inglese, dopo il tour del rispettivo disco, decide di avvalersi del produttore Bob Rock e registra Sonic Temple, un album epocale, che chiuderà la triade magica iniziata con i due precedenti album. D’altronde, quando in studio mentre registri passa Paul McCartney a dare la propria benedizione, signifca che la strada intrapresa è quella giusta (oltre ad avere Iggy Pop nei cori di New York City). Inutile dire che Sonic Temple ebbe un successo clamoroso che portò i The Cult sui palchi di mezzo mondo anche come supporto di Metallica ed Aerosmith.
Quando Mickey Curry inizia con il ritmo tribale di Sun King, poi seguito dal giro di basso di Jamie Stewart che ricorda The End dei The Doors, si capisce che i The Cult sono in uno stato di grazia mai più ripetuto successivamente (anche se il livello dei loro dischi seguenti e’ comunque molto alto). Quando la voce nasale di Ian Astbury intona il ritornello è impossibile rimanere immobili e non muovere la testa a tempo. Si passa poi al primo singolo del disco Fire Woman, introdotta da un arpeggio che ricorda vagamente Rain e che poi sfocia in uno di quei riff di Duffy che sono diventati un suo marchio di fabbrica. Un vero inno da stadio! Arrivati alla seconda traccia si nota subito che il mood dei brani è uno strano incrocio tra Love ed Electric con una bella spruzzata di Led Zeppelin per abbellire il tutto. Infatti mi ricordo di una vecchia intervista con Robert Plant nella quale gli veniva chiesto che ne pensasse di Get It On dei Kingdom Come e lui si mise a cantare il verso di Kashmire in tono di scherno (Lenny Wolf cantante dei KC al tempo dichiarò di non aver mai ascoltato i Led Zep, affermazione che distrusse la carriera del gruppo), ma subito dopo disse che se c’era una band che ammirava, pur con le influenze del famoso dirigibile, erano proprio i The Cult.
Uno dei brani migliori del lotto è sicuramente Amercian Horse, un mid tempo che non prende prigionieri; anche qui con un ritornello pazzesco ed una parte finale accelerata con un riff monumentale di Billy e l’orchestrazione sotto arrangiata da Bob Rock. E’ il momento della ballad Edie (Ciao Baby), altro pezzo da novanta in sede live, per non parlare del riff amerciano di Sweet Soul Sister, un brano stellare che mostra l’abilità del combo inglese anche nel cimentarsi con sonorità che strizzano l’occhio alle classifiche. Si prosegue con l’evocativa e appunto Kashmiriana, Soul Asylum (nella riedizione la trovate più avanti in versione demo con il nome di Cashmire) con atmosfere orientaleggianti disegnate a pennello per la voce di Ian, che ricorda un ibrido tra Plant e Morrison. La qualità dei brani è incredibile e la violenta e diretta New York City non fa altro che confermare la versatilità del gruppo, che qui rispolvera l’hard rock viscerale di Electric con un gusto metropolitano, come suggerito dall’emblematico titolo. E ancora Automatic Blues con Ian che ci chiede in tono profetico “Have you heard the news? The World is on Fire!” supportato dai soliti riff sub zeppeliniani di Billy Duffy con la sua Gretsch White Falcon. Il ritmo sincopato di Soldier Blue, ci ricorda di quanto sia importante la tematica dei nativi americani per Astbury (il successivo Ceremony sarà una specie di concept album sugli indiani). Wake Up Time For Freedom è un altro brano molto americano nel tiro e per chiudere in bellezza troviamo Medicine Train con un bel riff rotondo di Duffy che sembra uscito dalla penna di Jimmy Page e un’armonica blues a dare un sapore fortemente sudista alla traccia. Il finale al cardiopalma con un assolo fenomenale di Duffy chiude un album che è, come suggerisce il titolo, un tempio sonico a cui tutti noi dobbiamo genufletterci in totale preghiera.
Dopo l’ascolto del disco originale ecco che troviamo tantissimo materiale bonus che è rimasto chiuso nel cassetto fino ad oggi. Dal promo per il lancio del disco con la voce dell’inconfondibile dj Tommy Vance alle interessanti versioni edit dei brani, per finire con le demo, dove troviamo degli arrangiamenti più scarni. Dalla Doorsiana The River alla cruda Citadel, per finire con il mid tempo The Crystal Ocean, possiamo ascoltare tanti brani interessanti e gustarci la band inglese come mai l’avevamo sentita, nuda e senza fronzoli. Sentire come molti brani sono stati letteralmente plasmati in studio dalle sapienti mani di Bob Rock ha un certo fascino. Specialmente perché il nome del produttore canadese dopo questo album sarà richiesto da tutti i nomi più caldi del tempo dai Mötley Crüe su Dr.Feelgood ai Metallica del Black Album. Addirittura c’è una versione primordiale di Star che apparirà come singolo nel controverso (ma bellissimo) omonimo album del 1994 intitolata StarChild. Andando avanti troviamo altro materiale questa volta live del tour con esibizioni infuocate a Wembley di Londra dei cavalli di battaglia Sun King, Fire Woman ecc.
In conclusione un cofanetto deluxe che farà la felicità dei fan di lunga data dei The Cult, ma anche dei novizi, che si troveranno di fronte ad un album stellare che ha segnato non solo la carriera della band, ma di tutto un genere. Sonic Temple a distanza di trent’anni rimane la bibbia hard rock, davanti alla quale tutti noi dobbiamo inchinarci.