Recensione: Sorni Nai
Indiscutibilmente i Kauan sanno creare attesa per un loro nuovo album. Ne seguono la nascita in ogni passo, dalla prima entrata in studio alla pubblicazione, aggiungo pochi dettagli ma con costanza. E già con pochi dettagli danno l’idea che il disco avrà la sua epicità grandiosa (e di dischi ne hanno alle spalle già cinque, tutti pronti a confermare ogni possibile speranza su quello che uscirà in futuro). Così vale anche per Sorni nai, che per la cronaca è la seconda uscita in meno di un anno per i russi-che-cantano-in-finlandese, dopo le rivisitazioni di Muistunia.
Sapevamo che era un concept, sapevamo di cosa parlava – e lo scopriremo in seguito. Sapevamo che come il precedente Pirut sarebbe stato considerabile come un pezzo unico – di 52 minuti per giunta! Ed anche questa è una cosa che torna utile sapere. Perché?
Perché, per esperienza, i Kauan hanno una particolareevoluzione stilistica. Prima fanno un disco e in quello successivo riprendono quanto fatto, rendendolo monumentalmente ricco, cesellando nota su nota. Dopodiché battono altrove. È stato così per Lumikuuro e Tejtäljän Laulu (black atipico), così è stato per i successivi Aava Tuulen Maa e Kuu (post ambientale). Così è per Pirut e Sorni Nai. A cominciare dalla struttura monolitica per proseguire col concept paranormale. Si, perché se Pirut è ispirato al meteorite di Čeljabinsk, Sorni Nai racconta un altro dei tanti x-files della storia russa*, vale a dire l’Incidente Djatlov.
„L’incidente del passo di Djatlov (Гибель тургруппы Дятлова) è avvenuto la notte del 2 febbraio 1959, quando nove escursionisti accampati nella parte settentrionale dei monti Urali hanno trovato la morte per cause rimaste sconosciute. Il fatto avvenne sul versante orientale del Cholatčachl’, che in mansi** significa montagna dei morti …
La mancanza di testimonianze oculari ha provocato la nascita di molte congetture in merito alle cause dell’evento. Investigatori sovietici stabilirono che le morti erano state provocate da “una irresistibile forza sconosciuta. Dopo l’incidente la zona fu interdetta per tre anni agli sciatori e a chiunque altro intendesse avventurarcisi. Lo svolgimento dei fatti resta tuttora non chiaro anche per l’assenza di sopravvissuti
…Nonostante i corpi non mostrassero segni esteriori di lotta, due delle vittime avevano il cranio fratturato, due avevano le costole rotte e a una mancava la lingua. Sui loro vestiti fu riscontrato un elevato livello di radioattività…“
Stralci dalla wikipedia italiana
(al fine di aumentare la curiosità)
Ora, la domanda fondamentale da porsi è se questo nuovo album continui il solco sonoro iniziato da Pirut. E prima di rispondere, va ricordato che da alcuni anni a questa parte i Kauan non sono più un duo, ma stono divenuti a tutti gli effetti una band, sebbene la figura di Anton Belov rimanga comunque assai prossima (per non dire de facto) a quella di un mastermind. Elemento comunque importante, avere dei musicisti al seguito dona profondità e robustezza al suono.
Ad ogni modo, sì, Sorni Nai si presenta ancora con quelle tonalità grigie, malinconiche, lente e dilatate, che avevamo apprezzato nel disco precedente. Toni che formano un metal a netto carattere estremo. In esso si riuniscono elementi del black ed altri del doom, orchestrazioni desolatamente rarefatte – ricordiamoci che il concept si svolge in cima agli Urali, ed il video di presentazione rende l’idea dell’atmosfera. Spesso e volentieri gli archi disegnano paesaggi maestosi quanto aspri, dove rimane solo il sole, la roccia e l’aria. Altre volte le chitarre acustiche portano frammentari istanti di requie, prontamente spazzate via da una tormenta black. Altre volte ancora i nostri recuperano parecchi elementi dell’indie e di certo metal non allineato, come quello dei Sólstafir. Possiamo ricondurlo ad un genere? No, non è black, non è doom, non è death alla Opeth. È sicuramente estremo, ma più di quello non possiamo dare spiegazioni.
Un sound estremamente particolare, ed estremamente variegato, a tutti gli effetti Sorni Nai è davvero il più completo e maturo disco dei Kauan. Come per Pirut risulta difficile e svilente considerare i 7 episodi in cui l’album si divide, molto meglio sentirlo d’un fiato, dall’inizio alla fine. Ma va detto che, ad esempio, qui ricompaiono le languide tastiere prog di Aava tuulen Maa, e si sposano con l’asprezza delle chitarre elettriche (che in Aava latitavano) con una grazia rara e producono momenti spettacolari (terza traccia, da qualche parte). Insomma, l’unico difetto di questo disco è di essere uscito dopo Pirut e non poter contare sull’effetto sorpresa.
Ciò nonostante, a dispetto di numerosi ostacoli, che vanno dall’omogeneità ritmica al considerevole minutaggio, non è ridondante né ha voglia di strafare, non è mai noioso né ripetitivo, e non si perde e non è mai banale. Ma perché dirlo ancora, a che serve ribadirlo? I russi, che ormai non sono più solo russi ma anche ucraini, ma che ancora cantano in finlandese, colpiscono ancora e non lasciano scampo – un po’ come il fenomeno che, nel 1959, si è preso Djatlov e i suoi compagni di spedizione.
Tiziano “Vlkodlak” Marasco
* Dico russa e non sovietica, perché altrimenti verrebbe lasciato fuori l’x-file siberiano per eccellenza, il fenomeno Tunguska
** Il Mansi, come molti degli idiomi parlati in quella parte della Siberia, è una lingua uralica („e grazie al…“ risponderà qualcuno). Il fatto è che anche il finlandese è una lingua uralica, e i Kauan, si sa…