Recensione: Soul Furnace
Nati e sviluppatisi negli anni dominati dal COVID-19, è cioè nel biennio 2020/2021, gli australiani Black Lava giungono immediatamente a dare alle stampe il loro debut-album, “Soul Furnace”.
L’isolamento pandemico, che di fatto ha azzerato moltissime attività, ha invece consentito a talune categorie, come per esempio i musicisti, di dedicarsi con maggiore intensità all’attività di studio, anche se in diverse locazioni. Come nel caso dei Nostri.
I quali hanno miscelato i loro generi preferiti – black e death metal, progressive – per dare vita a uno stile piuttosto personale. Forse non il massimo dell’originalità ma comunque sufficientemente sviluppato per consentire ai brani di essere agganciati a un unico filo conduttore. Come accade per la biancheria ad asciugare.
Una foggia musicale ideale per i testi, a tema medievale, ambientati in mondi lontani e dimenticati. L’idea fondante la proposta in esame ha infatti ampi margini di visionarietà, derivante da dalle propaggini di un death multicolore a tinte scure ma non nere. Marrone, arancione e grigio servono per dipingere paesaggi alieni intrappolati nei meandri del tempo. Paesaggi in cui immergersi per godere appieno dell’esecuzione del disco, in una sorta di trance lisergica.
I quattro membri dell’equipaggio mostrano un’evidente abilità tecnica e un’altrettanta, evidente esperienza nei reami del metal estremo. Il che consente loro di esprimere al meglio ciò che rotea nei rispettivi cervelli.
E, a proposito di rotazione, chi emerge per primo dalla mota cui ribolle questo death metal si può dire sperimentale, è il batterista. Una fattispecie abbastanza desueta, ma che indica la voglia di emergere dalla mota stessa grazie a un drumming preciso, vario, pulito, complesso e articolato. Progressive, insomma.
Per il resto non è male la voce di Rob Watkins, che urla (sic!) le parole velate da un leggero screaming ma con molta aggressività. Uno stile canoro che attacca la giugulare di chi ascolta, stordendolo. Davvero un’ugola scabra, rifinita con la carta di vetro a grana grossa, sanguinante sì da tratteggiare coloro che vivono nei mondi più su menzionati.
Se però si vuole discutere di talento puro, occorre allora menzionare il chitarrista Ben Boyle che, da solo, si sobbarca un’immane molo di lavoro. Sia per la questione ritmica, sia per quella solista. La quantità di note e accordi che si può contare è immensa, sparpagliata in una miriade di riff e di assoli. Ma, soprattutto, di una continua rifinitura della musica con una moltitudine di ceselli a volte melodici, come scariche elettriche nel buio di una caverna sotterranea. Molto bravo anche Tim Anderson, anch’esso tendente ad allineare le parti di sua competenza al progressive death metal. Un rombo tremendo che in sottofondo sconquassa le budella ma che a volte emerge per trafiggere la cupa atmosfera alimentata dal full-length.
Le canzoni si svelano a una a una come elementi a sé stanti sebbene, come già accennato, non divaghino dal leitmotiv principale del platter. Sufficientemente diverse le une dalle altre, riescono a generare interesse a causa della loro varietà, appunto, e a fornire alcuni spunti di notevole valore tecnico/artistico (p.e.: ‘Aurora’, ‘Northern Dawn’). Quando si maneggia l’Australia è difficile che, nel campo del metal, ci si trovi poi davanti a qualcosa di convenzionale. E infatti così è anche per i Black Lava e il loro “Soul Furnace”.
Per molti ma non per tutti.
Daniele “dani66” D’Adamo