Recensione: Soul Sphere
I Born Of Osiris, quintetto a stelle e strisce proveniente da Chicago, sono uno di quei gruppi cui piace danzare sul filo del rasoio, proprio su quella sottilissima linea di confine che divide il colpo di genio dalla boiata senza appello.
Tamarri ed esagerati lo sono sempre stati come pure ipertecnici e senza dubbio fantasiosi con il loro “syntethic melodic deathcore”, tuttavia in alcuni frangenti del nuovissimo “Soul Sphere” sembra che Canizaro e compagnia si siano fatti prendere la mano finendo per oltrepassare un po’ troppo spesso il confine di cui sopra. Il risultato? A fianco di canzoni fresche e – a loro modo – divertenti come l’opener “The Other Half Of Me” o la successiva “Throw Me In The Jungle”, in grado di evidenziare la capacità di raggiungere un bilanciamento non banale tra violenza, ritmiche arzigogolate e rifiniture elettroniche, addirittura coronato da ritornelli che più catchy non si può, troviamo brani nei quali il senso della misura se ne va bellamente a farsi benedire.
Laddove infatti una “Illuminate”, pur tamarra ed eccessiva sotto praticamente tutti i punti di vista, riesce a farsi voler bene in virtù di una struttura melodica decisamente efficace, lo stesso non si può affermare di brani come le incasinatissime “Free Fall” e “The Sleeping And The Dead”, due pezzi che sembrano fatti apposta per indurre nella mente dell’ascoltatore la più semplice delle domande: «ma cosa diavolo sto ascoltando?»
Troppa troppa carne al fuoco, persino per un gruppo come i Born Of Osiris: cercare di risultare nel contempo cattivi e melodici, tamarri e ricercati, veloci ma senza perder per strada il groove non è proprio proprio una cosa semplice ed è da questo genere di schizofrenia che nascono i brani meno riusciti di “Soul Sphere”. Pezzi come “Warlords” e “River Of Time”, a parte un gran saggio di tecnica strumentale e un involontario strabuzzare d’occhi e orecchi di fronte a cotanta insensatezza messa in musica hanno davvero qualcosa da offrire o sono solo «strane per il gusto di essere strane?» E che dire delle truzzissime (si, avete letto bene) “The Louder The Sound, The More We All Believe” e “The Composer”, con quelle tastiere elettroniche da far invidia a certa dance anni ’90? Onestamente più che esperimenti, sembrano sonore prese per i fondelli, tale è la divertita grossolanità con cui sono state messe insieme.
Al tirar delle somme, al cospetto di un album così particolare forse ciò che conta davvero è solo l’approccio: se, per una volta, state cercando un pugno di canzoni all’insegna dell’ignoranza e del puro disimpegno, forse con “Soul Sphere” potreste anche finire per divertirvi. Se, al contrario, cercate della musica “seria” non potrete fare a meno di chiedervi perché una band dalle grandi potenzialità, con strumentisti di questo livello e con un cantante davvero bravo perda il proprio tempo e le proprie energie per produrre roba di questo tipo…
Stefano Burini