Recensione: Soul Survivor
Gli Adrenaline Rush sono svedesi, sono al secondo album in carriera e non si peritano di sfruttare l’immagine assai piacente della propria front woman schiaffandola con tutti i pizzi del caso direttamente in copertina. Lo sguardo è di sfida, accomodatevi pure, sembra dire Tåve Wanning, abbiamo pane per i vostri denti. L’approccio un po’ ruffiano della band potrebbe tanto incoraggiare (gli amanti delle belle figliole) quanto scoraggiare (quelli che la sanno lunga e sono consapevoli che la cavallerizza bionda sul sofa’ potrebbe essere uno specchietto per le allodole, a fronte magari di un disco meno interessante delle grazie della Wanning). Anche il rock è marketing, non lo scopriamo oggi. E tuttavia continuare a filosofeggiare lascia il tempo che trova, adrenalina ci è stata promessa, adrenalina ci dobbiamo aspettare.
E il neurotrasmettitore (del sistema nervoso simpatico e centrale) in effetti ci viene iniettato in generosa quantità. Gli Adrenaline Rush hanno tiro, lo mettono in evidenza sin dall’apertura del disco affidata alla omonima “Adrenaline“, per poi proseguire con le successive “Loving Like Poison” e “Breaking The Chains” (quanto ad originalità dei titoli non c’è da gridare esattamente al miracolo). Il timbro delle chitarre conquista subito, aggressivo, corposo e tagliente. La presenza di una donna dietro il microfono non mette strane idee in testa alla band, non intendono lisciarci il pelo né ammorbidirci con seduzioni svenevoli. Merito anche delle collaborazioni con Fredrik Folkare (Firespawn, Unleashed) e Erik Martensson (Eclipse) e dell’apporto dei due nuovi membri in fomrazione Sam Soderlindh alla chitarra e Joel Fox al basso. Gli Adrenaline Rush fanno rock, infilano il jack nella presa dell’ampli e lasciano che l’elettricità scorra a pieno regime, dal produttore al consumatore. Questo mi è piaciuto, i ragazzi sono tosti e grintosi. Un punto a loro favore. La Wanning ha sufficiente personalità da condurre adeguatamente i brani ma non una voce così carismatica da stampartisi in testa; diciamo che una sua foto raggiunge più facilmente questo obiettivo. Il songwriting è un po’ “vorrei ma non posso”, o meglio, “non riesco”. L’impressione iniziale, il primo impatto che si ha con “Soul Survivor” è di un album dal grosso potenziale, un lotto di canzoni che sembrano promettere molto per intensità. Ti convinci che una volta terminato l’ascolto tornerei a sentire il disco parecchie volte. Quando arrivi in fondo però devi rifare i conti.
Qualcosa durante la scaletta si sgonfia, o perlomeno si ridimensiona. I riff ad esempio sono quasi sempre più interessanti dei ritornelli, la costruzione del pezzo ha più valore di quella che dovrebbe essere la sua sublimazione, il chorus. Non ne azzeccano moltissimi gli Adrenaline Rush, non tanto perché siano brutti quanto perché alla fin fine risultano più banali di quanto ti saresti aspettato. Si perché la band pare avere le carte in regola, pare poter mirare al centro del besraglio, ma poi la freccia scoccata dall’arco si defila sempre un po’, acciuffando punteggi minori, più periferici rispetto al centro. Forse gli Adrenaline Rush devono crescere ancora un pochino, devono limare ulteriormente il songwriting, o forse – e sarebbe l’ipotesi peggiore – questo è in realtà il massimo che possono dare. La sufficienza se la guadagnano ma per stupire occorre un salto di qualità che ancora manca. Nessun pezzo si segnala come highlight dell’album, così come non ci sono tonfi o grosse brutture da segnalare. E’ tutto un po’ troppo mediano; vivace, energico, esaltato da una più che buona produzione, ma mediano. Hard rock moderno ma non modernista, rispettoso del passato ma non vecchiardo e ammuffito. Bisognerà aspettare il terzo capitolo per farsi un’idea definitiva sulla concretezza degli Adrenaline Rush.
Marco Tripodi