Recensione: Soulbound

Di Francesco Maraglino - 2 Marzo 2025 - 8:00
Soulbound
Etichetta: Frontiers Music Srl
Genere: AOR  Hard Rock 
Anno: 2025
Nazione:
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78

L’irlandese Robin McAuley è un vocalist di culto nell’ambito dell’hard rock (con forti tendenze verso l’AOR) degli Eighties, celebrato in particolare per il suo lavoro con il Michael Schenker Group.
E’ stato anche cantante di formazioni del calibro di Grand PrixFar Corporation e Survivor.
Dopo una carriera che ha visto anche taluni momenti di minore visibilità, negli ultimi anni la sua presenza nell’ambiente è tornata ad intensificarsi grazie, oltre che alle collaborazioni con Schenker, anche con l’eccellente supergruppo  della Frontiers Black Swan, al fianco di Reb Beach, Jeff Pilson e Matt Starr.

Ma non solo: Robin si è cimentato nuovamente anche come solista (il primo album era del 1999), e, dopo “Standing On The Edge” ed “Alive” degli anni scorsi, ecco arrivare ora il nuovissimo “Soulbound”.
Insieme con lui in quest’opera, oltre al chitarrista Andrea Seveso, presente anche negli album precedenti, troviamo una band tutta tricolore, guidata dal produttore Aldo Lonobile (basso, chitarre) e con Alessandro Mammola (chitarre), Alfonso Mocerino ( batteria) e Antonio Agate (tastiere aggiunte).

“Soulbound”, le cui canzoni sono frutto della vena compositiva soprattutto di Alessandro Del Vecchio, spinge stavolta l’acceleratore su suoni più aggressivi, pur ponendo al centro come sempre la melodia e l’eleganza del canto.

Ecco quindi scorrere tracce dure ed energiche come ‘Til I Die (dai riff trafiggenti e dalla voce particolarmente al top), The Best of Me (un hard rock grintoso, scuro e melodico ad un tempo, ben cadenzato anche dalla  batteria che qui pesta assai), e, tra le migliori del lotto, Let It Go ( melodica, ma carica di chitarroni pervasi da intensa energia hard rock).

Robuste e solenni sono Bloody Bruised and Beautiful ed il midtempo Soulbound, mentre ancor più vicine all’hard’n’heavy  classico sono la lineare Born To Die e l’epica There Was A Man  heavy epico e melodico.

Chi apprezza il McAuley più prossimo all’AOR troverà invece pane per i suoi denti nell’eccellente Wonders of the World, spavaldo rock “adulto” dalle grandi chitarre, nonché  in Paradise e in Crazy, entrambe foriere di un melodic rock dal ritornello molto catchy (la seconda forse persino troppo rispetto al mood del resto dell’album) e dalle limpide chitarre.

“Soulbound” sembra in fondo ripercorrere le diverse anime della carriera di Robin, dal più classico hard/ heavy rock alle escursioni maggiormente Adult Oriented (siamo in casa Frontiers, del resto). Quasi un riepilogo della propria storia artistica, insomma, contraddistinto anche qui da una voce sempre stilosa, incastonata in un ambiente strumentale pregevole e carico di grinta.

Francesco Maraglino

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